mercoledì, Giugno 07, 2023

Domenica delle Palme

L’amore di Dio rovesciato sul mondo

Omelia di Divo Barsotti, 22 marzo 1985 – (Domenica delle Palme)

La liturgia di quest’oggi è estremamente complessa: sembrerebbe che fossero uniti due tronconi che non creano per sé l’unità. È una liturgia di gloria: non per nulla abbiamo la veste di colore rosso e abbiamo iniziato acclamando al Cristo che, entrando in Gerusalemme, veniva in qualche modo proclamato dal popolo il re messianico. Era l’intronizzazione del Re. È dunque un atto di gloria.

Poi invece abbiamo letto la Passione del Signore.

Come si uniscono questi due avvenimenti? Lo sappiamo precisamente dalla stessa liturgia e anche dal pensiero dei Padri, ma prima ancora dal pensiero stesso degli evangelisti, dalle parole stesse di Gesù. Voi avete ascoltato quello che dice Gesù dinanzi al Sommo sacerdote: “Da oggi in avanti voi vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra del Padre” (cfr. Mt 26,63). Era un condannato, sapeva che cosa lo aspettava: non solo la morte, ma la morte di croce, la morte più spaventosa, la morte riservata agli schiavi. E tuttavia proprio in quel supremo momento si proclamava Figlio di Dio, uguale al Padre. E ben compresero i sommi sacerdoti le parole di Gesù: si stracciarono infatti le vesti e dissero: “Non abbiamo più bisogno di accuse: abbiamo ascoltato con i nostri orecchi la bestemmia” (cfr. Mt 26,65). E dunque è Gesù che unisce la suprema ignominia alla glorificazione indicibile che Egli fa di Se stesso: Figlio di Dio nella sua morte. Dice l’Inno dei vespri che abbiamo cantato: “Regnavit a ligno Deus” (Dio ha regnato dal legno; Inno Vexilla regis). E dice anche Gesù nel IV vangelo: “Quando sarò innalzato da terra trarrò tutto a me” (Gv 12,32). È proprio l’essere crocifisso e sospeso su un patibolo infame che fece di Lui colui che redimeva il mondo e lo riacquistava, ne faceva il suo possesso: Regno suo e del Padre.

Allora la celebrazione di questo giorno è celebrazione di gloria sotto il segno dell’umiltà, è celebrazione di trionfo sotto il segno dell’umiliazione suprema. In Gesù si congiungono gli estremi: Egli assume il peccato del mondo, Lui che è il Figlio di Dio. E proprio perché assume il peccato del mondo, Lui, che è il Figlio di Dio, lo cancella, riempie il vuoto infinito che sussiste tra la creazione e il Creatore con l’infinito suo amore.

Ora non conviene fare tanti discorsi per chiarire a noi la grandezza del mistero che siamo per celebrare. Conviene piuttosto ricordarci che il mistero del Cristo continua: nella nostra umiltà noi siamo i figli di Dio. E tanto più noi siamo garantiti di essere partecipi della gloria che è propria del Figlio, tanto più in questo mondo viviamo il nascondimento, l’umiltà, la sofferenza, la morte. Anche in noi continua e si fa presente il mistero di questa unione degli estremi: l’umiltà con la gloria, la povertà con il regno, il nascondimento con il trionfo. Dobbiamo per questo cercare di vivere quella fede che ci è chiesta contemplando e partecipando in questi giorni al mistero del Cristo. Dobbiamo vivere quella medesima fede nei riguardi nostri: troppe volte noi scegliamo una parte della verità e allora ci sentiamo oppressi, stanchi e sfiduciati perché le prove si accumulano sopra di noi, perché noi ci sentiamo degli emarginati, perché noi ci sentiamo umiliati dalla nostra vita, messi da parte, e non consideriamo che questo è l’aspetto che è significativo di un’altra realtà che è la realtà di un nostra grandezza, la realtà di una nostra elezione. È nella misura che

veramente noi viviamo e partecipiamo a questa umiliazione del Cristo che noi siamo anche uniti a Lui che è Figlio di Dio.

Altre volte invece noi ci leghiamo soltanto all’aspetto che sembra positivo, ci gonfiamo interiormente perché siamo giovani, perché abbiamo dei buoni successi nella vita, perché tutto sembra facile nel nostro cammino… e non ci rendiamo conto che tutto questo – se non è legato a una partecipazione alla passione del Cristo – già di per sé ci esclude dalla vera gloria, ci esclude dalla vera partecipazione alla sua vittoria e al suo trionfo.

Il mistero del Cristo è precisamente questa unità degli estremi, unità degli estremi che sarà sempre presente nel mondo fintanto che nel mondo sarà presente la Chiesa. E io come amo questa Chiesa ora vilipesa, questa Chiesa umiliata, questa Chiesa che sembra sempre più emarginata nel mondo di oggi… come amo questa Chiesa, segno davvero di una presenza di Dio! Oh, come non desidero affatto nessun trionfo, nessun successo per la Chiesa e per gli uomini di Chiesa. Come invece desidero per loro lo stesso destino che ha scelto Gesù. Ma quel lo che è vero per la Chiesa è vero anche per me: desiderare un trionfo umano, credere che Dio debba servire alle nostre ambizioni terrene, è in fondo non capire nulla di quello che è il Cristianesimo, perché noi non possiamo né potremo mai dissociare nel mistero del Cristo – che viene reso presente nelle sue membra; noi siamo il suo corpo, fino alla fine dei tempi – l’umiltà dalla gloria, non può dissociarsi la vita dalla morte, non può dissociarsi la sofferenza dalla beatitudine stessa di Dio.

È questo il mistero che celebriamo nel giorno di oggi. Gesù entra in Gerusalemme come re messianico. Il suo ingresso nella santa città è l’inizio veramente del Regno: “Ecco Colui che viene, il re, il figlio di Davide!” (cfr. Mc 11,9-10); così lo acclamavano i fanciulli. E dice Gesù a coloro che li rimproverano perché non li fa tacere: “Se essi tacessero, griderebbero le pietre!” (cfr. Lc 19,40). Veramente dunque in quel momento, in quell’istante, iniziava il Regno di Dio; veramente in quell’istante prendeva possesso del Regno il Signore, ne prendeva possesso in quanto, assumendo il peccato del mondo, doveva essere condannato, ma nella sua stessa condanna Egli avrebbe distrutto il male del mondo.

Come lo distruggeva? Ecco il problema. La cosa è molto semplice, in fondo. Che cos’è il male, il male che Gesù ha voluto prendere sopra di sé? Non è certo il peccato come tale – perché Egli non ha fatto peccato – ma ha preso su di sé gli effetti del peccato che sono la distruzione stessa dell’essere, sia per quanto riguarda il suo corpo, la sua vita fisica, sia per quanto riguarda la sua anima, la sofferenza morale. Non solo: anche la sofferenza spirituale, la desolazione dell’anima sua, il sentimento dell’abbandono del Padre. È stato schiacciato, è stato calpestato, è stato conculcato: nulla è rimasto sano in Lui. E questa visione del Cristo è veramente qualcosa che noi non tolleriamo: vedere Gesù, contemplarlo nella sua passione, è veramente qualcosa che supera la nostra possibilità di resistenza. Non riusciremmo a guardarlo, non riusciremmo a contemplarlo in quella sua umiliazione. Veramente non è più un uomo, ma un verme (cfr. Sal 22,7).

Però, ecco, perché nell’assumere tutto questo male Egli vince? È semplice: perché il male, per sé, è l’effetto del peccato. In Lui il male era l’atto supremo dell’amore: Egli non doveva conoscere sofferenza, Egli non dove va conoscere la morte, Egli non doveva conoscere umiliazione, tantomeno doveva conoscere l’abbandono del Padre. Ma tutto questo l’ha assunto per amore: la

sua passione è Lui che l’ha voluta, e l’ha voluta per donare a noi la sua vita. Quello che era dunque l’effetto del male è divenuto manifestazione e prova di un amore infinito, di un amore immenso. Il male si è rovesciato, è divenuto il segno dell’amore di Dio: Dio si è fatto presente per noi in quella umiliazione suprema. E non vi è rivelazione più alta di Dio che quella umiliazione, e non vi è rivelazione più alta di Dio di quella morte, perché mai Dio ha rivelato talmente Se stesso come quando ha rivelato questa infinita tenerezza di amore per la quale ha scelto di prendere sopra di Sé tutto il male del mondo per donare a noi la sua vita. Ecco Dio chi è.

Non è tanto dunque né la sofferenza né la gloria che contano: gloria e sofferenza sono aspetti di un solo mistero che è l’amore di Dio, un amore che si è rovesciato nel mondo e ha colmato tutti gli abissi, un amore che si è rovesciato nel mondo e ha sollevato il mondo fino a Dio.

Questo noi contempliamo, questo dobbiamo contemplare in questi giorni di Passione. Fermarci soltanto a considerare la morte, a considerare la passione del Signore, è insopportabile. Lo dicevo pochi giorni fa. Una volta mio fratello mi disse: “Leggi un po’ questa pagina”. E mi presentò Il ponte sulla Drina di Ivo Andric [il romanzo fu pubblicato nel 1945, ndr], il più grande romanziere jugoslavo. Era la descrizione di un impalamento: un povero diavolo, un povero uomo che veniva impalato dai turchi, perché aveva fatto crollare un ponte, il ponte sulla Drina. Non sopportai: lessi alcune righe e poi gli detti il libro. “Non riesco a leggerlo, non posso leggerlo”. Un impalamento… Ma se noi considerassimo la morte di Cristo sarebbe ancora peggiore, perché là era una sofferenza fisica, umana, bestiale. Qua non è soltanto una sofferenza fisica, è una sofferenza di tutte le specie: fisica, morale, spirituale. Su tutte le potenze del Cristo il male si è rovesciato e l’ha totalmente distrutto. Non potremmo sopportare la passione. D’altra parte il contemplare la gloria del Cristo ci fa sentire così diversi da Lui. Non si tratta di contemplare né la morte né la gloria: si tratta di vedere nel Cristo la rivelazione suprema dell’amore di Dio, di questo Dio che ha voluto scendere in un abisso più fondo dell’abisso nel quale siamo discesi; per poter risollevare tutto il mondo a Sé Egli è disceso fino nelle radici stesse del mondo e tutto lo ha sollevato fino alla gloria del Padre. La passione del Cristo è la rivelazione di questo amore immenso, di questo amore infinito.

Ci crediamo? Si tratta precisamente di credere perché umanamente parlando il segno rimane sempre il male, il segno rimane sempre l’umiltà, il segno rimane sempre la morte. E se non ci fosse la fede davvero quello che la Chiesa ci insegna sarebbe solo pazzia. Non per nulla dice Paolo, che la croce è pazzia per i pagani e scandalo per i giudei (cfr. 1Cor 1,23). Anche per noi sarebbe così e non sarebbe altro che così. Ci vuole certamente la fede, ma chi ha la fede allora può contemplare questa presenza di un Dio che ancora ci ama e ci fa partecipi del suo stesso mistero, unendoci a Sé, anche nell’umiltà, anche nella povertà della nostra condizione umana, per farci però anche partecipi della sua dignità di Figlio, per elevarci a sé e colmarci del suo medesimo amore.

Oggi non si può meditare la passione, oggi non si può nemmeno considerare soltanto l’acclamazione dei fanciulli: si devono vedere questi due aspetti uniti in Cristo perché si manifesti a noi l’amore infinito di Dio.

Pasqua 2021

Sabato Santo

Sabato Santo

Venerdì Santo

Venerdì Santo

Giovedì Santo

Giovedì Santo

Giovedì Santo

Giovedì Santo Meditazione di p. Paolo – Triduo Pasquale 2021

Mi pare opportuno domandarci perché il Padre ci propone il Giovedì santo come una nostra festa. Certamente i motivi sono tanti, anche perché il mistero del Giovedì santo è non solo profondo, ma anche sfaccettato, ricco di molti temi.
Dopo aver letto o ascoltato diverse meditazioni del Padre alla Comunità riunita appunto in questo giorno, potremmo dire che, anzitutto, siamo invitati all’intimità con Gesù. Ciò che più di ogni altra cosa sembra colpire il Padre la sera del Giovedì santo è il contesto raccolto dell’Ultima Cena. La liturgia ci ha fatto già meditare il tradimento nei giorni precedenti il Triduo: ciò non elimina l’ombra sinistra del peccato, ma l’oscurità della notte, pur regnando all’esterno, non spegne la luce che rischiara e riscalda il Cenacolo. Questa luce è Gesù, luce che illumina gli Apostoli, luce in cui siamo chiamati a rimanere.
Nel Manuale si consiglia ai Gruppi di partecipare insieme in parrocchia alla Messa in Coena Domini, proprio per dare consistenza e visibilità all’intimità con il Signore a cui la consacrazione chiama ciascuno di noi e in cui dobbiamo vivere anche la nostra fraternità. Per quanto possibile, poi, il Padre ha cercato di celebrare il Triduo in Comunità, a Baida o a Desenzano, dove ha potuto. Sappiamo che il Triduo pasquale non si può celebrare privatamente: si tratta non solo dell’evento liturgico più solenne dell’anno, ma anche del vero luogo, della fonte stessa da cui tutti siamo nati in Cristo e siamo una sola cosa in Cristo, una sola Chiesa: di qui la necessità e la norma di rendere manifesta e pubblica la nostra unità come cristiani. Di qui, però, anche l’esigenza, per il Padre, di farci cogliere, soprattutto il Giovedì santo, che questa unità in Cristo è il nostro carisma, la nostra caratteristica, la nostra testimonianza. Sappiamo che la Comunità dei figli di Dio non si vuole in alcun modo distinguere dalla Chiesa e proprio l’invito a stringerci attorno a Gesù nel Cenacolo, questa sera, ha come scopo quello di identificarci con la Chiesa, essere la Chiesa, nella concretezza della nostra appartenenza alla famiglia della Comunità.
Questo, dunque, un primo motivo che ci spiega perché il Giovedì santo è una nostra festa. La liturgia stessa ci stimola a vivere questa intimità. Il Cenacolo è il luogo in cui ci raduniamo anche durante buona parte del Tempo pasquale, ascoltando il racconto delle diverse apparizioni lì avvenute e i lunghi discorsi di Gesù durante l’Ultima Cena, secondo il Vangelo di Giovanni. Per il Padre, il fatto che il Signore, apparendo nel Cenacolo, ai discepoli di Emmaus, sulle rive del lago, si metta a mangiare insieme ai suoi, sta come a indicare che la Cena del Giovedì santo non si è interrotta. L’Ultima Cena è divenuta l’Unica Cena.
Questo intimo stare di Gesù con i discepoli è così pieno di amore e di un amore così sereno e luminoso, che il fatto stesso che il Tempo pasquale ci proponga di rimanere ancora tanto a lungo nel Cenacolo è come se cancellasse persino il dramma della croce, persino la tragedia del peccato, come non fossero mai stati. Tornare a sedere a mensa con Lui, tornare ad ascoltarlo, è come riprendere la cena, interrotta… da che cosa? Neppure si ricorda. Certo, le piaghe testimoniano quanto è avvenuto, ma la gioia non le fa vedere più neanche agli Apostoli. E neppure noi le vediamo più. Delle vestigia del peccato, dell’orrore del Calvario non resta che l’Eucaristia, il nostro stare a mensa con Gesù, il mistero stesso dell’intimità del Giovedì santo, la Santa Messa. Una tale intimità che ora il Signore si fa me e fa di me Se stesso.
Nella Santa Messa, nella Comunione, noi oggi possiamo vivere quanto vissero gli Apostoli in queste ore. Il Giovedì santo è il giorno della Messa, è l’attivazione del significato sacramentale di tutta la realtà o, meglio, l’elevazione di tutta la creazione alla condizione di segno e veicolo di grazia. Cristo si comunica, facendo di questa creazione e, per mezzo di essa, dell’uomo una sola cosa con Lui nell’Eucaristia. Il clima di intima e semplice vicinanza dell’Ultima Cena persiste nell’umile e quotidiano segno dell’Ostia consacrata, che vela e rivela la presenza di un Mistero che tutto abbraccia: tutto Dio, tutto l’uomo, tutta la creazione visibile e invisibile.
La spiritualità del Padre, la nostra spiritualità, ruota attorno all’evento del Giovedì santo. Anche per questo è la nostra festa. Bisogna almeno accennare ai molteplici e profondi temi del primo giorno del Triduo, che sono anche aspetti essenziali della Comunità dei figli di Dio.
L’inaugurazione dell’economia sacramentale
La ricchezza del Giovedì santo è tale che la Chiesa sente il bisogno di esprimerla attraverso i ricchi riti di due sante Messe.
Poco conosciuta dai fedeli è la Messa crismale che, secondo la norma, si celebra la mattina del Giovedì santo, ma in molte diocesi in altre date per motivi pratici. Credo che sarebbe importante per noi della Comunità partecipare a questa celebrazione che vede riunito tutto il clero diocesano attorno al Vescovo.
Quali aspetti del Mistero si vogliono mettere in evidenza attraverso la Messa crismale? Anzitutto, il Giovedì santo inaugura la liturgia nel senso più pieno e proprio del termine. Cristo, Nostro Signore, agisce da vero Pontefice qual è. Egli, vero Dio e vero uomo, eleva dalla potenza all’atto la sua condizione di nesso tra Dio e l’uomo, ma, oggi soprattutto, tra l’uomo e Dio. La sua umanità diviene luogo, strumento e attore del culto vero e salvifico che può giungere gradito a Dio: altare, vittima e sacerdote.
Cristo è l’altare, la pietra di fondamento. Senza di Lui non vi è “luogo” in cui poter offrire a Dio il sacrificio di lode e di salvezza. Egli è la Via, il ponte che unisce la terra al cielo. Egli è il vero Tempio in cui l’uomo si incontra con Dio, in cui non vi è più alcun velo che separi Dio dall’uomo.
Cristo è la vittima, l’unica vera vittima che può essere gradita dal Padre celeste. Ci ripeteva il Padre che solo Dio può soddisfare Dio. In Cristo, l’uomo possiede ora la Vittima che sola può permettergli di accedere al Cielo.
Cristo è il sacerdote vero ed eterno. In questo senso dicevo che finalmente Gesù passa dalla potenza all’atto: Egli che è tutto quello che abbiamo detto, Via e vero Agnello grazie all’umanità assunta, ora esprime, mette in atto ciò che è. È giunta l’ora di offrirsi al Padre. Solo Lui può farlo e adesso lo fa.
Nella Messa in Coena Domini, non si ricorda l’Istituzione dell’Eucaristia. Seguendo il Vangelo di Giovanni, la liturgia propone la lavanda dei piedi, mettendo in luce altri temi propri di questo intensissimo giorno. Neppure nella Messa crismale si ricorda direttamente l’Istituzione, tuttavia, attraverso il segno degli Oli santi, la celebrazione della mattina del Giovedì santo è finalizzata a sottolineare l’inaugurazione dell’economia sacramentale. L’accento è posto sul compimento delle promesse, per mezzo del Vangelo della visita di Gesù alla sinagoga di Nazaret, secondo Luca. Il compimento avviene nel farsi presente Dio in questa realtà, nell’assumere Dio questa realtà, nell’unirsi Dio all’uomo per mezzo di questa realtà.
Nel prendere pane e vino (i segni a cui indirettamente alludono entrambe le Messe di oggi), Cristo utilizza elementi del cosmo e il lavoro umano per metterci in comunione con il suo sacrificio.
La Bibbia fa intravedere fin dalla Genesi che la creazione e la storia umana sono segno e luogo di manifestazione di Dio all’uomo. Il Padre sviluppa in quasi tutti i suoi scritti questa verità, parlandoci della triplice rivelazione: cosmica, profetica e cristiana. Ebbene, proprio nell’Istituzione del Giovedì santo, nella consacrazione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, il Signore attiva la potenzialità della creazione e della vicenda umana: per Lui, con Lui e in Lui, esse divengono il segno e lo strumento per cui Dio si comunica all’uomo e l’uomo si fa uno con Dio. Che Dio si riveli attraverso questa creazione, che Dio operi nella storia, è possibile grazie al Giovedì santo. Solo il sommo e vero sacerdote che è Gesù Cristo può dare il loro vero senso alla creazione e alla storia umana. Solo Lui, finalmente, le fa servire al loro scopo, a ciò per cui esistono. Tutta l’economia cosmica, tutta l’economia profetica giungono a verità e compimento nell’atto di Cristo.
Egli, anzitutto, da Maria Santissima riceve l’umanità che assume. Nel suo farsi uomo, unisce a Sé, vero Dio, tutti gli elementi, tutta la creazione, e vive una vita umana. Ma Egli, la sera del Giovedì santo, ribalta la prospettiva, perché ora siano gli uomini a vivere nella loro umanità la divinità di Cristo. Il suo Corpo, il suo Sangue, tutto Se stesso viene consegnato ai discepoli in cibo, perché essi partecipino della condizione divina. E questo Gesù lo compie usando il pane, usando il vino, elementi del cosmo, ma lavorati dall’uomo. In questo senso, la creazione e la storia raggiungono il loro scopo, secondo il progetto di Dio. Stabilito fin dall’eternità, ora in Cristo si compie con l’unificazione del mondo creato e del mondo divino.
Fino all’incarnazione nel grembo di Maria Vergine, fino al momento dell’Ultima Cena, assistiamo alla discesa di Dio verso l’uomo. Ora inizia l’ascesa dell’uomo verso Dio. Gesù, il Dio divenuto uomo, prende ora questa creazione per farne il segno efficace della sua grazia, della sua redenzione, per farne lo strumento per cui l’uomo può divenire Dio.
La comunione con la croce di Gesù: i tre piani o momenti della Passione
Ma si potrebbe giustamente obiettare che il vero fondo a cui Gesù deve giungere è il Venerdì santo, la morte di croce.
Vorrei far notare, come ho fatto altre volte, che la Passione di Nostro Signore, pur essendo una, si presenta sotto tre aspetti o in tre momenti, che si possono definire: liturgico, esistenziale e storico. Sono l’unica Passione che Gesù è come se vivesse tre volte: il Giovedì santo, nell’aspetto liturgico ed esistenziale, cioè, nell’Ultima Cena e nel Getsemani; il Venerdì santo, nell’aspetto storico, quando soffre quella che sola siamo abituati a chiamare Passione.
Ma il Venerdì santo non avrebbe senso senza il Giovedì. Che voglio dire? Voglio dire che la morte di croce non potrebbe raggiungerci, se non vi fosse il Sacramento. E né l’uno né l’altro avrebbero un vero valore, se non vi fosse il doloroso “sì” pronunciato nell’Orto degli Ulivi dall’umana volontà di Nostro Signore. Nessun destino, nessun fato condusse Gesù al Calvario, ma il suo divino amore che divenne anche atto di amore umano, pieno, intenso, doloroso: il consenso del Getsemani.
Credo che ognuno di questi momenti contenga la totalità della Passione, ciascuno da una certa prospettiva.
L’Ultima Cena è l’ambito in cui la Passione viene comunicata ai discepoli, quindi anche a noi. La via liturgica è quella che ci permette di valicare il tempo e di essere tutti presenti al mistero del Calvario, perché si tratta della stessa Passione, dell’unico sacrificio compiuto da Gesù Cristo. Quello che il Signore fa nel consacrare il pane e il vino è non l’allusione simbolica alla morte di croce, non il dare un significato alla tragedia del Venerdì, bensì lo stesso evento del Golgota, ma sotto il velo del Sacramento.
Il Calvario è ciò che era l’olocausto nell’Antico Testamento. L’Ultima Cena, invece, è il sacrificio di comunione. La morte di croce è la solitaria consegna che Gesù fa di Sé al Padre. L’Ultima Cena è la consegna che Egli fa di Sé a noi. Ma è un unico mistero di amore.
Il sacerdozio
Nella Messa crismale della mattina del Giovedì santo, la Chiesa sottolinea uno dei temi “secondari” del primo giorno del Triduo: il sacerdozio.
Diciamo che è un tema secondario, non perché non sia importante, ma perché è derivato. Il principio fontale del mistero è Cristo, vero Dio e vero uomo, che compie la sua missione di riassumere e riportare tutto al Padre. È da Lui e dal suo sacrificio che nasce il nuovo sacerdozio, superamento totale di quello levitico. La lettera agli Ebrei, che in questi giorni ci accompagna nell’Ufficio delle letture, ci fa cogliere chiaramente la novità.
Dal Signore, che inaugura la nuova economia sacramentale, discendono due sacerdozi: quello battesimale e quello ministeriale. La Messa crismale vuole celebrarli entrambi. Cristo, fondamento di ogni reale rapporto con Dio, ci unisce a Sé e ci abilita ad essere offerta viva di noi stessi. L’unione oggettiva è stabilita dai Sacramenti, segni efficaci di grazia di per sé. Grazie ad essi, la Chiesa ci santifica, ci fa una cosa con Cristo.
È su questo piano che opera il sacerdozio ministeriale, nato quando Gesù, nell’Ultima Cena, disse ai suoi Apostoli: «Fate questo in memoria di me». Qui l’azione della grazia è divinamente efficace, al di là dei meriti e della dignità dei ministri. I santi Oli che il Vescovo consacra durante la Messa crismale vogliono indicare proprio l’oggettività dell’opera dello Spirito Santo sui membri della Chiesa, attraverso i Sacramenti. Ne deriva che anche l’azione liturgica dei ministri della Chiesa ha valore oggettivo: essi agiscono nella persona di Cristo e in nome della Chiesa, quando santificano i fedeli per mezzo dei Sacramenti.
E proprio per questo è stato istituito. Nella Messa crismale, infatti, il clero rinnova le sue promesse di fedeltà e di unione con il Vescovo e con la Chiesa, per indicare che solo da Cristo e dalla sua Chiesa viene il potere di generare e alimentare figli di Dio.
E i Sacramenti sono per i fedeli tutti.
Ciò che ci fa essere figli di Dio è il Battesimo. Ciò che ci abilita a vivere come figli di Dio è la Confermazione. Ciò che ci nutre come figli è l’Eucaristia. Tutto ciò è ordinariamente amministrato dal sacerdozio ministeriale, ma è principio del sacerdozio laicale, altrimenti detto comune o battesimale. Da un altro punto di vista, però, dobbiamo dire che è dal Battesimo, dalla Cresima e dall’Eucaristia, cioè dal contesto del sacerdozio laicale che scaturisce la possibilità di divenire ministri attraverso il Sacramento dell’Ordine. Se non si è battezzati, non si può essere preti, ma senza i preti non ci sono i Sacramenti dell’iniziazione: Battesimo, Cresima ed Eucaristia.
Il Giovedì santo tutto nasce contemporaneamente dallo stesso Gesù e dal suo Sacrificio. Tutto Egli fa sacro (sacrum facere, sacrificio). Anche se i singoli Sacramenti possono essere fondati su diverse pagine del Vangelo e degli scritti apostolici, la loro fonte scaturisce il Giovedì santo sacramentalemente e il Venerdì storicamente: dal costato aperto dalla lancia.
Con ciò, torno a riferirmi ai tre momenti della Passione e colgo l’occasione per sottolineare il fatto che è nel sacerdozio battesimale che siamo chiamati a vivere il secondo livello della Passione di Nostro Signore: il Getsemani. Infatti, Gesù vive nell’Orto degli Ulivi il suo sacrificio sul piano esistenziale e abbiamo già visto che era necessaria la piena adesione della sua volontà umana, perché si desse un reale fondamento alla grazia che ci è stata data di poter offrire noi stessi a Dio in Cristo. Proprio questo, infatti, è il significato del sacerdozio battesimale: ciascuno di noi è reso degno ed è abilitato ad offrirsi in sacrificio al Padre, come figlio nel Figlio. È per l’esercizio di questo sacerdozio, che tutti noi battezzati abbiamo, che ripetiamo il “sì” che Gesù dice nel Getsemani. Senza questo consenso il nostro vivere nel mondo, il nostro soffrire, il nostro morire, non si coniuga con l’opera compiuta in noi dai Sacramenti. Se io non consento all’amore, in qualche modo, non sono raggiunto e trasformato dall’amore in amore. Anche noi dobbiamo vivere la nostra Pasqua su questi tre livelli: sul piano sacramentale, siamo oggettivamente figli; su quello esistenziale, aderiamo alla nostra condizione di figli; su quello storico, la nostra vicenda umana non è più solo umana, ma è partecipazione oggettiva e soggettiva (primo e secondo livello) alla Passione di Cristo. «Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).
Il fondamento sacramentale del sacerdozio ministeriale e laicale si celebra nella Messa crismale, come abbiamo detto. Anche questo tema è essenziale per la Comunità, dato che si fonda sul Battesimo e riunisce in sé ogni vocazione cristiana: se siamo figli di Dio, è per quanto è avvenuto il Giovedì santo.
Ma passiamo a un nuovo tema.
L’Atto e la Presenza
L’Atto del Cristo è, per il Padre, la morte di croce. Abbiamo visto che la morte di croce è una sola realtà, un solo Atto, dunque, con l’Istituzione dell’Eucaristia. Si tratta del medesimo Sacrificio. E abbiamo anche visto che la morte di croce, di per sé incomunicabile, che cioè Gesù vive da solo, viene invece comunicata attraverso la via liturgica, inaugurata nell’Ultima Cena. Il Mistero eucaristico è, secondo la teologia, la presenza del Cristo in stato di vittima. L’Atto rimane fissato ed è la consegna di Sé al Padre (sulla croce) e ai fratelli (nel Pane e nel Vino consacrati).
L’Atto e la Presenza, come ha notato e provato don Ruggero Nuvoli, sono i temi portanti della teologia del Padre e della nostra spiritualità. Il Giovedì santo è il giorno della loro attuazione. Una sola realtà con l’evento del Calvario, il Mistero eucaristico riempie la storia e la trascende, riempie di Dio la creazione e la fa traboccare nel mondo di Dio. Tutto diviene un solo Cristo.
In Gesù, nel suo Atto di morte e di donazione di Sé, si chiude tutta l’opera economica della Trinità, specchio della sua vita immanente: infatti, come in Dio, il Padre genera eternamente il Figlio in un atto di amore che è lo Spirito Santo, e il Figlio tutto si rivolge al Padre nel medesimo atto di amore che è lo stesso e unico Spirito Santo, così il Padre crea la creazione a immagine del Figlio, in vista di Cristo stesso: per l’opera dello Spirito Santo, fa che nel Figlio tutta la creazione sia assunta e si riassuma; e ancora per l’opera dello stesso Spirito Santo, la creazione, resa una con il Figlio, nel Figlio torna al Padre. È l’Atto del Cristo che, attraversando tutta la creazione in estensione e in profondità, diviene il punto di incontro di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio, diviene tutta la realtà, cioè l’unione, il riassunto del mondo divino e del mondo umano.
Per l’Atto compiuto e comunicato, Cristo è la Presenza che tutto investe e a tutto dà senso. La Presenza reale del Cristo trova nel Mistero eucaristico la sua essenziale espressione, segno efficace e fondamento della divinizzazione di questa realtà. In Cristo, secondo quanto insegna il dogma dell’Incarnazione, Dio e l’uomo, Dio e la creazione, divengono uno, senza che si confondano o si annullino vicendevolmente, senza che mutino o subiscano menomazioni di sorta, senza che sia più possibile separarli. A causa di Cristo e del suo Atto, dove è Dio, è anche l’uomo, dove è l’uomo, è anche Dio, né si spiega Dio senza l’uomo, né l’uomo senza Dio.
La spiritualità della Comunità si potrebbe ricondurre tutta a questo: vivere la Presenza; essere la Presenza. Non un cammino da percorrere, non una morale da esercitare, non obiettivi da conquistare. Cristo ha compiuto ogni cosa, Cristo è in ogni cosa, in ogni realtà, in ogni momento. Si tratta di vederlo con gli occhi della fede. Questa la vocazione a cui siamo chiamati. Essere la Presenza è poi la missione che abbiamo. Non abbiamo altro da fare che testimoniare Cristo in noi, che essere la Presenza del Cristo nel mondo.
Rimanere in Gesù: il superamento del peccato nell’essere lavati
Gesù è il superamento di ogni separazione da Dio.
L’intimità con il Signore non si deve alla nostra bontà, al nostro merito, al nostro sforzo. È la realtà di Gesù stesso, la Presenza medesima, come si è detto. Il tema giovanneo del “rimanere” è la semplice conseguenza, l’esigenza, che scaturisce dal fatto che Gesù è qui, ora, in mezzo a noi. Da parte sua, nessuna distanza, nessuna riserva. Rimanere vuol dire rinunciare ad ogni nostra distanza, ad ogni nostra riserva.
Il Giovedì santo, tra l’altro, viene istituito anche il Sacramento della Penitenza, proprio nella lavanda dei piedi che caratterizza la Messa in Coena Domini: «Chi si è fatto il bagno (con queste parole Gesù si riferisce al Battesimo spirituale che gli Apostoli hanno vissuto nello stare con Gesù; di conseguenza anche il Battesimo sacramentale che noi abbiamo ricevuto), non ha bisogno che di lavarsi i piedi (e con questo allude alla riconciliazione che occorre ogni volta che non ci manteniamo all’altezza della dignità ricevuta in Cristo)» (Gv 13,10).
Il peccato, davanti alla redenzione della croce, non ha più alcun potere in se stesso di separarci da Cristo. Solo la nostra complicità con il peccato può impedirci di ricevere la misericordia di Dio. Il Signore non vuole che ci chiudiamo nel nostro peccato. Il suo amore è come impaziente persino davanti al nostro pentimento. La sua misericordia – che suppone ancora un peccato da sanare – vuole potersi esprimere al più presto in amore ed è quello che vediamo nel Vangelo.
Rimanere in Gesù vuol dire credere nel suo amore e vivere del suo amore. È questa l’acqua che lava i nostri corpi, i nostri piedi, che cioè ci converte e ci risana continuamente. Accettare che Dio ci ami così, è superare ogni barriera: è rimanere in Gesù. Il problema del peccato è per chi vuole rimanere in relazione con il peccato. Sarebbe importante approfondire, ma non ne abbiamo il tempo. Tuttavia possiamo citare l’esempio di Giuda, evidente caso per cui si preferisce il proprio modo di pensare, al punto che il modo di pensare del Signore rimane impenetrabile fino ad apparire insensato; quello di Pietro, invece, è il caso in cui l’amore per il Signore è certo, ma ancora fondato su se stessi, pertanto non si riesce a credere veramente che l’amore di Dio sia più grande del proprio peccato; infine, l’esempio di Giovanni, il discepolo che “rimane”, cioè colui che non bada più a se stesso, ma vive della parola, della presenza, dell’amore di Gesù. Il peccato non ha più peso, una volta conosciuto e creduto l’amore del Signore.
Nella lavanda dei piedi, si è ammessi all’amicizia con il Signore. Nella Comunione eucaristica, si è introdotti nella più profonda intimità con Dio. Il Giovedì santo è il mistero di ogni santa Messa: la realtà è questa comunione con Gesù, di cui dobbiamo imparare a vivere.
Rimanere in Gesù: lavarsi i piedi gli uni gli altri
E l’intimità con Gesù ci mette in compagnia di tutti gli altri che Gesù ha chiamato attorno a Sé. Il comandamento dell’amore, tema centrale della Messa in Coena Domini, è la diretta conseguenza dell’unione con Gesù nella Comunione. Anche per questo il Giovedì santo è “la nostra festa”, perché è la festa della comunità cristiana, che nasce e si stringe attorno a Gesù. Nel Mistero eucaristico, il Signore scompare nell’invisibile Presenza reale, ma si rende visibile, si rende tangibile, in me e nei miei fratelli. Nasce una reciprocità d’amore che supera l’antico comandamento di amare il prossimo. Un solo Gesù è Colui che ama; un solo Gesù è l’Amato. Inizia una circolarità di amore che, certo, ha il suo fondamento nella grazia, nell’unità posta da Cristo, ma che anche diviene il comandamento nuovo, cioè un impegno a vivere secondo l’amore, un impegno a far vivere l’amore che è in noi per la via sacramentale.
E sacramento della Presenza è il fratello, sono io. Gesù non lo conosciamo più nella carne sua terrena, ma tra di noi lo ritroviamo, in noi lo vediamo, nel servizio reciproco lo amiamo. La Comunità non l’abbiamo fatta noi: la raduna il Signore. Egli chiama come vuole. Di qui il nostro sforzo di superare ogni differenza, per giungere all’unità dell’amore.
Rimanere in Gesù: Cristo è l’unità
È dalla liturgia del Giovedì santo e precisamente della Messa in Coena Domini che il Padre ha tratto quello che chiamò “il nostro inno”: l’Ubi caritas. È solamente in Cristo che possiamo fondare la nostra unità, non sul piano morale, ma sul piano ontologico e teologale. Il Verbo di Dio incarnato, che supera l’abisso che separa la creatura da Dio, che nella sua Passione supera anche l’abisso scavato dal peccato, il Signore crocifisso, risorto e a noi comunicato per la via sacramentale, costituisce il nesso ontologico della nostra unità. Nella sua umanità assunta, noi, liberati dal peccato ci troviamo uno, uno in Cristo.
Uno con Dio Padre, perché siamo uno con il Figlio per opera dello Spirito Santo.
Uno con tutti gli uomini, perché Cristo si è fatto uno con tutti. Prima ancora, ma anche al di là dell’adesione personale da parte di ogni singolo uomo, la redenzione operata dal Verbo incarnato, crocifisso e risorto, è capace di assumere tutti gli uomini di tutti i tempi.
Di qui deriva l’impegno teologale per ogni credente, per ciascuno di noi, di accogliere nella carità tutti come fratelli, compresi i nemici. Non per nulla l’amore per i nemici diviene il distintivo del discepolo di Cristo. L’amore cristiano, infatti, non è causato da nulla, ma è preveniente e gratuito. L’amore cristiano è pronto ad amare prima ancora di conoscere l’amato e, quando l’altro è conosciuto, è come conosciuto da sempre, perché è già amato in Cristo.
L’unità di fatto, però, è con tutti gli uomini che sono uno con Cristo. In questa fase terrena della vita, non conoscendo il giudizio di Dio sui singoli uomini, non posso separarmi da nessuno, ma, perché anche io sia uno con Cristo, devo volermi e farmi uno con tutti. Nella pienezza della vita, quando sarò nella visione, risplenderà l’unità, solo tra tutti coloro che sono realmente membra del Cristo, ormai uno nella pienezza. Chi non sarà uno con Lui, sarà eternamente solo con se stesso: il vero inferno.
Per questo il Padre teneva tanto a sottolineare che la nostra unità in Cristo è già e soprattutto con i santi, con coloro cioè che sono stabiliti nella carità per sempre. Il loro amore per noi è sicuro, non vacilla, non può venire meno.
Con i santi, le anime purganti sono i nostri più veri compagni. E pure gli angeli del cielo, per l’adesione che vivono al piano di Dio di voler assumere l’uomo alla dignità divina, in Gesù Cristo Nostro Signore.
E tutta questa creazione, che Dio ha fatto per rendersi visibile e comunicarsi a noi per la nuova economia sacramentale inaugurata in questo santo giorno, pure partecipa del mistero dell’unità, attraverso di noi, per la resurrezione della nostra carne, per aver contribuito a fare ciascuno di noi quello che è. Che cosa saranno mai i cieli nuovi e la terra nuova, se questa creazione visibile si può paragonare a un seme? Che mai sarà la quercia nel suo pieno sviluppo, se la ghianda, che è questo creato, è già così meravigliosa? Potrà non essere parte del Cristo ciò che Dio stesso ha contemplato con occhi umani e ancora contempla con i miei occhi di credente?
Siamo uno in Cristo, perché siamo uno con Cristo. Il mistero dell’unità si compie il Giovedì santo. La Messa è il luogo in cui tutto converge; è l’Atto del Cristo, la morte di croce, che tutto riassume e redime; è la Presenza reale, senza più divisione di tempo e di spazio, la porta aperta sull’eternità, la vera e perfetta comunicazione di Dio all’uomo.
Conclusione
Verrebbe da dire che basta il Giovedì santo, basta l’intima comunione con il Signore. E il Venerdì santo? E il Sabato? E la resurrezione di Nostro Signore?
Se Cristo è uno, anche tutto il suo agire è uno. L’abbiamo già visto. È l’unico mistero sui diversi piani della realtà, secondo i vari obiettivi che Dio si propone nel compiere il suo unico Atto.
Ciò che il Padre ha sempre voluto vivere e ha insegnato, con la parola e con la sua dipartita da questo mondo, è proprio l’intimità di comunione con Gesù. Partendo da qui, dalla fede nell’amore del Signore, si può attraversare ogni Venerdì santo e ogni Sabato santo. Tutto dell’uomo è stato redento: nulla può più separarci dall’amore di Cristo. Perciò tutto può essere fonte di gioia, motivo di comunione con Gesù crocifisso e risorto, che, nel Pane eucaristico, si fa una sola cosa con me, vive una sola vita con me.
Le tenebre possono circondare il Cenacolo, ma nulla può spegnere la luce che è la Presenza di Cristo, di Cristo che ha vinto la notte, che ha sconfitto la morte.

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