mercoledì, Giugno 07, 2023

Verso la festa di Pentecoste

La gioia del cristiano nell’essere amato da Gesù

Omelia del 9 maggio 1986

Divo BarsottiLa gioia del cristiano nell’essere amato da Gesù

Sì è detto ieri che il dono dello Spirito Santo ci dà la possibilità di conoscere il Cristo. “Il mondo non lo conoscerà, ma voi lo conoscerete” (cfr. Gv 14,17); “mi conoscerete” anzi, dice Gesù nel Sermone dopo la cena. Anzi, dice di più che conoscerlo: lo vedremo. In noi – si disse ieri – che è questo il primo effetto dell’azione dello Spirito. Certo, l’azione dello Spirito Santo ci dà anche l’esperienza della pace, del sentimento vivo di una pienezza interiore, ma tutto questo sarebbe ben poca cosa se tutto questo non fosse l’effetto di un rapporto nuovo con Cristo Gesù. Lo vedremo, stabiliremo con Lui un rapporto.

Stamani, ecco, ci dice qual è il primo effetto di questo conoscere il Cristo, di questo vederLo – “vi vedrò di nuovo” (Gv 16,22) e noi lo vedremo. Qual è questo effetto? La gioia. Una gioia che distingue il cristiano come sentimento perenne, come sentimento continuo della sua vita, perché – dice Gesù nel Vangelo di oggi – “nessuno potrà rapirvi la vostra gioia” (Gv 16,22). Da questo dunque noi conosceremo se siamo cristiani: se possederemo la gioia. Una gioia pura, tranquilla, una gioia evidentemente che non è una gioia sensibile, ma una gioia vera, la gioia che nasce dalla koinonia (dalla comunione): come nell’amore umano la presenza dell’amato o dell’amata è l’origine prima, la sorgente più vera della gioia umana, così, nel piano di Dio, la presenza del Cristo. Perché la presenza del Cristo non è la presenza del giudice: è la presenza di Colui che ama. Domani sarà giudice, ma oggi non giudica: oggi, se tu gli fai posto, Egli viene con il dono del suo amore, Egli viene per essere tuo. Se dunque tu vivi la koinonia, la comunione col Cristo, tu non puoi che conoscere la gioia: una gioia serena, non come la gioia del mondo che è turbolenta, ma una gioia che è come la luce, penetra l’essere umano, lo purifica e lo solleva. Una gioia pura che penetra tutto l’essere, lo rende più leggero, più libero; è come se togliesse all’anima ogni peso, è come se togliesse all’anima ogni sua opacità; purezza e limpidità della gioia, della gioia cristiana. Noi dobbiamo vivere questa gioia pura. Egli è con noi e rimarrà sempre con noi; nulla potrà separarci da Lui, nessuno potrà rapirci dunque la nostra gioia, come dice Gesù nel Vangelo di oggi, proprio perché Egli rimane con noi, Lui che è l’amore, proprio perché Egli rimane, vive con noi, vuol essere nostro, Lui che è l’amore.

S’è detto prima: se Egli viene oggi viene come colui che ci ama, non come colui che ci giudica. E ricordatevi quello che diceva allora sant’Efrem: “Se tu accogli oggi il Signore, non ci sarà giudizio per te perché sei già passato dalla morte alla vita. Il giudizio è per coloro che sono morti e la presenza del Cristo li manifesta tali, vuoti, soli. La dannazione è questa solitudine estrema dell’anima che non è amata e non può amare più. Ma tu, tu vivi con Lui ed Egli vive con te: con la resurrezione di fatto questo si è compiuto. Egli è divenuto intimo a ciascuno, compagno nel cammino che ognuno deve compiere quaggiù nella terra.

Vi ho detto altre volte: l’apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus è il simbolo della stessa vita umana. Non c’è una pagina del Vangelo che meglio esprima quello che è la vita dell’uomo quaggiù sulla terra: un pellegrinare, un andare verso la casa, e in questo cammino possiamo sentirci tristi, e in questo cammino possiamo sentirci soli, e in questo cammino ci sembra di essere dei vinti. No: Egli si accosta a noi, Egli viene con noi, Egli si accompagna al nostro cammino finché i nostri occhi non si aprono e noi lo riconosciamo. Allora possiamo dire: “Come ardeva il nostro cuore quando Egli era con noi!” (Lc 24,32). Ma perché parlare al passato – scusa – perché vuoi parlare al passato? Egli è sempre con te; se tu non lo ri-scacci, se tu non ti allontani da Lui, Egli rimane con te ed è in questa presenza del Cristo – che è l’amore – che l’anima nostra troverà la pace, la dolcezza, la gioia: dobbiamo vivere questo.

Come veramente certi scrittori non hanno capito nulla del Cristianesimo. Hai presente, Andrea, Alle fonti del Clitumno di Carducci? Secondo Carducci sembrerebbe che il Cristo ha gettato la croce sulle spalle dei suoi fedeli e gli ha detto “Portala e servi, sii schiavo!”. Schiavi, noi schiavi? Il cristiano è l’unico uomo libero. Il peso della croce? Ma non è vero: la croce per noi ora è la macchina che ci solleva a Dio, come dice sant’Ignazio di Antiochia. Noi non conosciamo che la gioia, la gioia anche nei tormenti, come i martiri, la gioia anche nelle torture – come i martiri – perché nessuno può rapirci la gioia di sentirci amati e amati da un Dio: Egli è con noi. È il primo effetto – dicevo – di questa presenza del Cristo che l’anima nostra vive. Certo, per conoscere questa gioia bisogna vederlo, bisogna cioè avere coscienza di questa presenza di amore, cioè bisogna vivere la koinonia, questo senso di comunione intima col Cristo vivente. Non si tratta di essere buoni; la bontà viene dopo. Prima di tutto si tratta di guardarlo. La prima cosa che ha fatto Nera è il fatto che si è innamorata di Domenico, poi da questo incontro con Domenico lei ha cercato di contentarlo in tutto, di essere vicino a lui, di aiutarlo; così anche noi lo faremo col Cristo, ma prima di tutto bisogna innamorarci di Lui, bisogna guardarlo e innamorarci. È la prima cosa che si impone, se no le virtù diventano un peso, se no le virtù diventano un qualche cosa che ci affatica, che ci stanca, che ci dà noia. No: le virtù possono essere soltanto amate da noi se sono frutto dell’amore. Ma prima di tutto viene l’amore e l’amore non esiste, non è possibile per noi amarci se non vediamo Colui che vogliamo amare, che dobbiamo amare. Anche Nera s’è innamorata quando ha visto Domenico: se Domenico stava giù in Sicilia e lei stava a Verona non poteva mica innamorarsi, bisognava che lo vedesse. Anche tu ti sei innamorato di Amalia, vero? Ma fintanto che non l’hai vista, eri innamorato di Amalia? Non potevi essere innamorato.

Prima cosa che si impone è il rapporto personale con colui che dobbiamo amare. Allora per noi la prima cosa che si impone è che veramente nell’azione dello Spirito Santo Egli a noi si faccia presente, che per l’azione dello Spirito Santo noi vediamo Gesù. Ed è precisamente questo che ci dice proprio Gesù nel sermone dopo la cena: “Voi mi vedrete perché come io vivo così voi vivrete” (Gv 14,19). Lo [mi] vedrete: lo Spirito Santo ci dà gli occhi per vederlo. Ecco che cosa fa lo Spirito Santo dapprima e una volta che lo abbiamo veduto lo Spirito Santo suscita in noi questa gioia, dilata la nostra anima nella gioia, una gioia pura. Sì, la gioia di sentirci amati. Non è un’altra gioia: è la gioia di sentirci amati da un Dio.

Sei povero, sei peccatore? Oh, basta che tu ti apra e l’amore di Dio già ti riempie di sé. Possono essere i nostri peccati a impedire a Dio di amarci? I nostri peccati possono impedirci di credere al suo amore, perciò di aprirci ad accogliere l’amore, ma Dio è amore, non è altro che amore. Vi ricordate quello che vi ho detto? Se anche per un istante solo, un attimo, il demonio dovesse pentirsi e aprirsi all’amore di Dio, l’amore di Dio lo colmerebbe della sua felicità infinita, immensa: Egli rimane l’amore. È il dannato che si chiude, rifiuta l’amore, non vuole accogliere l’amore, ma tu, tu lo guardi. Se lo guardi, ecco, sei preso dall’amore per Lui, ma prima di tutto accetti di essere amato, accogli questo amore, ti apri totalmente ad accogliere questo amore. E allora non sono le nostre virtù e non sono i nostri peccati che attirano l’amore di Dio: le nostre virtù non sono altro che l’effetto dell’amore che Egli ci porta. Una volta che noi accogliamo in noi l’amore di Dio l’amore di Dio ci trasforma, ma non è un prezzo che noi paghiamo per ottenere l’amore. Eh, ci vorrebbe ben altro che le nostre virtù per ottenere l’amore di Dio! Che cosa noi siamo per attirare l’amore di un Dio che è infinito, l’amore di un Dio che in sé medesimo è beatitudine somma ed eterna, per attirare l’amore di un Dio che è santità immensa e pura? No, Dio non è attirato dal nostro amore, dalle nostre virtù, ma Egli ci ama liberamente, ma Egli ci ama gratuitamente, ma Egli ci ama per nulla. E noi dobbiamo davvero aprirci ad accogliere il Cristo: se lo vediamo, se nello Spirito Santo noi otteniamo gli occhi per poterlo vedere, noi lo riconosceremo, Egli viene per portarci Sé medesimo, infinito. E noi, nell’accogliere questo dono di amore, conosceremo la gioia stessa di Dio.

Un mese e mezzo fa la Thea, sai che cosa mi disse? Che non sentiva la pena di aver lasciato la palestra, l’insegnamento dello Yoga, non sentiva nemmeno la pena di aver lasciato di fare scultura; la pena che sentiva è di non poter danzare. Lo dicesti, vero? E io le ho sempre detto che dovrebbe esserci alla Trasfigurazione almeno un’ora e mezza di danza ogni giorno; dovremmo vivere questa gioia serena, questa gioia piena di sentirci uniti al Signore, sentire che il Signore è con noi. Perché anche quando non ritorni alla Trasfigurazione di qui, non fai un passo di danza? Tutta la nostra vita dovrebbe essere questo canto continuo di amore, questa gioia pura che deve traboccare da noi. Quando tu passi per Settignano dovrebbero tutti volgersi a guardare: che cosa c’è qui? Perché veramente è – come dire? – è una meraviglia un’anima che sa di essere amata da Dio. Non ti sembra? Oh, se tu senti il rimpianto di questo vuol dire proprio che tu ancora non lo hai conosciuto. Bisogna che Egli entri nella tua vita e la sconvolga, doni a tutta la tua vita davvero di essere questo trionfo di amore, questo canto di amore, in risposta all’amore che Egli ti porta. Sì, lo dico sempre anche nei monasteri là dove vado a fare gli esercizi: guardate che ogni monastero dovrebbe essere una scuola di danza. Santa Teresa la faceva anche fisicamente, ma se non volete farla fisicamente almeno col vostro spirito dovete sentire veramente di essere sciolti, liberi di vivere una vita che è canto, che è armonia, che è danza divina.

Ecco, questo mi sembra che il Signore ci dica: vederlo è essere pieni di gioia, incontrarci con Lui è svegliarci veramente a una gioia pura ed immensa. Pura: non c’è violenza, non c’è esaltazione mistica, è una gioia che ti penetra come l’acqua e lentamente ti investe e lentamente ti purifica. È come – più ancora che come l’acqua – è come la luce; la luce entra attraverso le finestre. Io stamani ho aperto giù la biblioteca, erano le 4.30: non si vedeva proprio nulla, ma poi pian piano la luce è entrata. E allora non importava più nemmeno che la luce fosse accesa, perché da tutte le finestre entrava e illuminava ogni cosa.

Così è la pace di Dio, così è la gioia di Dio: entra pian piano, penetra tutto, tutto trasforma, tutto diviene limpido, tutto diviene luminoso, tutto diviene puro. Ecco, questa è la gioia di Dio. Che noi possiamo conoscerla davvero per rendere testimonianza di una presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

Presentazione del Signore

Domenica 2 febbraio 2003
-Anno B-
Presentazione del Signore – Ml 3, 1-4; Eb 2, 14-18; Lc 2, 22-40
*Omelia di Divo Barsotti*

Omelia per la Notte di Natale

*Omelia del 24 dicembre 1991*

 Il cristianesimo è credere veramente che Dio ci ama

Credo, per capire qualche cosa, bisogna cercare di ricordarci e di commentare la seconda lettura che è stata fatta durante questa liturgia, dall’epistola di Paolo a Tito.  “È apparsa a tutti gli uomini”, dice Paolo, “la benignità del Signore”. E poi dice che avverrà poi la manifestazione della gloria. Ecco, precisamente in questi due tempi che noi possiamo comprendere che cos’è il cristianesimo. Se veramente il Cristo avesse realizzato pienamente su tutte le dimensioni dell’essere la salvezza, noi dovremmo dire che Egli ci ha ingannato, dovremmo dire che ci ha deluso: il mondo è sempre quello di prima. Che cosa è sostanzialmente cambiato nell’uomo, nell’umanità dalla venuta del Cristo? È avvenuta la venuta del Cristo: Dio si è fatto uomo, Dio é disceso fino alla nostra povertà, Dio ha voluto assumere la nostra umiltà. Dio in questo ha manifestato l’infinito suo amore che non ha potuto sopportare di essere da noi diviso, di essere da noi lontano. Non solo sulla croce Egli ha assunto il peccato dell’uomo; prima ancora, nella sua stessa nascita, Egli ha assunto la nostra debolezza, la nostra povertà, il nostro nulla. Ed è precisamente in questa assunzione della nostra povertà che si manifesta l’amore, se noi crediamo. Certo che è incredibile il cristianesimo: senza una grazia particolare è ben difficile che noi possiamo pensare, che noi possiamo credere che quel bambino che nasce, per caso, come appare dal Vangelo di oggi, per caso, sembra, che nasce per caso a Betlhem, sia il Figlio di Dio l’Onnipotente, il Figlio di Dio, Colui per il quale è stato creato l’universo, Colui al quale tendono tutte le cose. Chi lo potrebbe pensare? Ma è proprio nel fatto che Dio voglia discendere fino alla nostra povertà che si manifesta il suo amore. Egli non può sopportare di essere diviso da noi, di essere diverso da noi. È proprio dell’amore prendere l’altro, e possedere l’altro e divenire una sola cosa con l’altro che si ama. E Dio ha voluto essere uomo perché così soltanto poteva manifestare il suo amore; poteva darci tutti i benefici che noi potevamo desiderare ma non ci avrebbe amato.

Chi ama non desidera le cose dell’amato: desidera l’amato. Quando due s’innamorano e vogliono poi sposare, sì, possono accettare anche il regalo dell’anellino con la perla o qualche altra cosa, ma non è questo che può compiere l’unione dei due. L’unione dei due implica il dono di sé all’altro, dono per tutta la vita, dono esclusivo. Tutto l’amante dona all’amato, tutto l’amato riceve dall’amante, e tutto vuol dire lui stesso. Così Dio amandoci si è donato totalmente e si è fatto uno con noi. Ma è questa la salvezza? Sì, per ora è questa la salvezza. La redenzione compiuta da Cristo mi sembra che sia un po’ veramente troppo, come dire… Sì, mi sembra che si esageri troppo nel parlare di quello che la Chiesa può fare sul piano sociale, sul piano politico, sul piano culturale: può far sempre ben poco. È inutile che noi compiamo le cose: Dio ci ha lasciato nella nostra condizione umana di povertà e di bisogno. Poteva, certamente poteva liberarci da tutto questo, ma era giusto che noi volessimo credere al suo amore e volessimo credere al suo amore non tanto perché Egli ci donava quello che Egli poteva donarci indipendentemente da Sé, ma perché noi dovevamo invece capire che non ci avrebbe amato se non fosse divenuto uno con noi, perché noi divenissimo una sola cosa con Lui. 

Che cos’è il cristianesimo? È questa notte. Guardate che tutti i misteri del cristianesimo si compiono di notte, perché veramente tutta la vita del mondo è come la notte. L’uomo vive un mistero dal quale mistero non può sollevarsi, non può uscire: tutto rimane misterioso nella nostra vita, e la nascita e la morte, e il senso che può avere la nostra vita e il valore che possono avere i nostri atti. A chi domanderemo il perché di questo nostro vivere se non abbiamo la fede? Che cosa ci soccorre a capire, ad accettare la vita presente? Ma se abbiamo la fede allora possiamo accettare: Egli vuole che noi sappiamo fidarci di Lui. Verrà un momento in cui Egli si manifesterà e allora la redenzione compiuta oggi sul piano soltanto della vita interiore esploderà anche sulla dimensione sociale, sulla dimensione politica, sulla dimensione cosmica perché, se veramente noi siamo il termine dell’amore di Dio, miei cari fratelli, non si può accettare che l’uomo sia meno di tutta la creazione. È il termine ultimo dell’amore: Dio non ama la creazione che in vista dell’uomo. Tutto quello che Dio ha compiuto l’ha compiuto per me, l’ha compiuto per voi. E dico per me perché l’amore è sempre esclusivo: Dio é infinito e può amare con tutto se stesso ciascuno di noi, senza togliere nulla a nessuno. Egli ama ciascuno di noi come se fosse unico al suo amore; l’Infinito non si divide, l’Infinito non può avere parti, Egli si dà tutto a ciascuno. Io sono al termine, io sono al vertice della creazione: Egli mi ama. E io comprendo questo amore precisamente celebrando la natività di Gesù, perché se avessi dovuto celebrare stasera i miracoli del Signore, la manifestazione – non so – della sua gloria, non sarei stato sicuro che Egli mi amava. Quando uno ama si ordina all’amato, si mette al di sotto dell’amato; fintantoche tu non ti ordini nei confronti di colui che ami e ti metti al di sotto perché l’amato diviene per te il tuo fine, tu non ami. Tu puoi servirti dell’altro ma non lo ami. E Dio ha voluto mettersi al di sotto di tutto perché amava noi; noi dovevamo essere il termine ultimo del suo amore. Noi contempliamo quest’amore divino in un bimbo, nella sua debolezza, in un bimbo che non sa parlare, in un bimbo che non può camminare, in un bimbo che aspetta tutto da te. Sembra che tu debba dargli tutto ed é invece tutto il contrario: tutto tu ricevi da Lui. Che cosa ricevi? La certezza di essere amato.

Questo, questo ci dice il cristianesimo. Il cristianesimo non è altro, ma non è mica poco, sapete. Cristianesimo vuol dire credere veramente che un Dio ci ama. Noi sentiamo che vivere per noi uomini vuol dire sentire che siamo conosciuti, sentire che siamo amati. Non possiamo vivere in noi stessi; chiusi in noi stessi viviamo soltanto la morte. Ma d’altra parte noi sentiamo anche questo, che non vi è alcuna creatura che ci conosca fino in fondo e che fino in fondo non dico ci ami, ma possa rispondere alla nostra esigenza di amore. Dio ci ama, ecco il cristianesimo. Tutto il cristianesimo é nella fede di essere amati da Dio, sentirci termine di questo amore immenso, di questo amore infinito, nella notte di questo mondo. Tutto sembra essere oscuro, tutto sembra non avere senso, tutto sembra che deluda ogni nostra speranza, ma perché noi non vogliamo Dio, vogliamo le cose di Dio. Noi non ci contentiamo che Egli ci ama; vogliamo le sue cose e con questo rifiutiamo veramente l’amore, perché chi ama non sa di che farsene delle cose se non riceve l’amato. Questo è il Natale. E se questo è il Natale, questa è anche la condizione precisamente della umanità fintanto che Egli non si manifesterà nella gloria; sempre la Chiesa vivrà nell’ombra, sempre la Chiesa vivrà nell’umiltà, nella povertà; è inutile che si alzi le trombe… La Chiesa sarà sempre una ben povera cosa, perché Dio non ha dato alla Chiesa altro che quello di testimoniare la Sua presenza; non gli ha dato né potere politico, né potere sociale, né potere economico e poco anche il potere culturale. Che cosa gli ha dato? Ha dato a tutti noi la capacità di credere che Egli ci ama, la capacità per ciascuno di noi di abbandonarci al suo amore e lasciarci amare da lui. Tutto il cristianesimo è qui. Non è facile: dicevo prima, credere è la cosa più difficile che possa esistere oggi nel mondo. Tutto è possibile o almeno tutto è più facile; credere invece a quello che dice il cristianesimo sembra esorbitante, sembra veramente impossibile all’uomo, e vi dirò ancora che è impossibile credere. La fede di fatto è un dono; non possiamo pretendere con la nostra intelligenza di giustificare l’atto di fede. È come, vedete, la fede è come l’esperienza sensibile: posso io cercare di giustificare il fatto che vi vedo qui davanti? Ma tutta la mia vita poggia sulla certezza della oggettiva realtà di quel mondo che attraverso i sensi io percepisco. Come l’oggettiva realtà del mondo fisico si giustifica per me attraverso l’esperienza sensibile, così si giustifica per me il mistero di Dio attraverso una percezione interiore che non è così violenta come l’esperienza sensibile e tuttavia è una percezione, ha un carattere esperienziale. Lo dice san Tommaso d’Aquino. Non crediate che sia per me soltanto una parola: spesso il cristianesimo diventa una parola, un’ideologia. Non è un’ideologia, è un’esperienza di vita; non è un’ideologia: è un incontro di amore; non è un’ideologia, è una presenza viva di Dio che entra nella mia vita. Ed è questo che io vivo proprio anche stasera, il giorno di Natale. Vivo l’esperienza di un Dio che realmente mi ama. Oh, prendere fra le nostre braccia il bambino e sapere che quel bambino che aspetta tutto da te è Colui che ti ha creato, è Colui che un giorno ti giudicherà. Tutta la grandezza di Dio è in quel batuffolo di carne che sembra non avere nessuna possibilità di sopravvivere se io, io non sono al suo servizio, non mi metto al suo servizio.  

Credere nel cristianesimo vuol dire questo: se voi aspettate dalla Chiesa qualche altra cosa, la Chiesa può darvi qualche altra cosa, ma vi deluderà lo stesso. Non pretendete che la Chiesa possa stabilire la giustizia. Oltretutto sarebbe impossibile; chi conosce i valori di ciascuno? E poi quando li conoscessimo, chi ha il potere di rispondere al diritto che può avere ciascuno in forza dei valori che egli esprime? Come é possibile la giustizia, come è possibile la pace quando di fatto ci sono gli egoismi che ancora mettono in contrasto, almeno in tensione, l’uno contro l’altro, l’uomo contro l’uomo, il popolo contro popolo, la nazione contro nazione? Fintanto che vi è l’egoismo che domina, è mai possibile che questo mondo conosca il superamento di queste tensioni? Certo, noi tutti dobbiamo cercare di collaborare, di vivere e di impegnarci a rendere più facile la vita, a renderla più anche profeticamente trasparente nei riguardi di quello che noi attendiamo, nei riguardi della nostra speranza, di quella speranza che non ci confonde, come dice San Paolo, la speranza finalmente che Dio un giorno ci colmerà di tutti i suoi beni. Ma intanto noi dobbiamo vivere, nell’umiltà di questa condizione nostra, la dolcezza del cristianesimo. Vedete, quello che celebriamo sembra veramente qualche cosa che fa anche sorridere. Grandi avvenimenti? Niente: la nascita di un bimbo. Grandi avvenimenti? Non solo la nascita di un bimbo, di un bimbo che rimane poi per tutta la vita, almeno per trent’anni, sconosciuto a tutti, nessuno sa nulla di lui e non fa nulla in trent’anni. E noi celebriamo questa nascita, noi celebriamo questa povertà, noi celebriamo questa debolezza. 

Si diceva prima: non è qualche cosa che indica per noi, che è per noi anzi delusione di una promessa mancata. È invece l’accettazione, piuttosto la verità di una promessa mantenuta che è al di là però di ogni nostra attesa, di ogni nostra aspettativa. Poteva aspettare Isaia che il bambino mettesse la mano nell’aspide, ma perché giocare a queste cose? In fondo sarebbe stata una specie di magia che poi avrebbe lasciato il mondo come lo trovava. Si poteva pensare che la venuta del Cristo avrebbe portato la pace alle nazioni, e invece voi sapete che dopo il Cristo le guerre di religione si sono moltiplicate e anche oggi ci sono. E allora, che cosa ha fatto il cristianesimo? Oh, miei cari fratelli, se crediamo, se veramente crediamo Dio è con noi, vive la nostra piccola vita. Se fosse stato, se fosse soltanto stato un grande uomo che avesse compiuto grandi cose nella vita presente, era difficile per ciascuno di noi poter vivere con lui è che lui vivesse con noi. Ma ecco il cristianesimo: non soltanto si è fatto bambino, si è fatto uomo, ma vive con ciascuno di noi. E non disturba la nostra vita: la vita del più umile come la vita del Papa è lo stesso. Il Papa non vive di più di quello che vive un facchino: quello che dice la grandezza di una vita è soltanto la capacità dell’uomo di aprirsi a questo dono di amore. Dio vive con noi e vive con noi proprio adattandosi alla nostra condizione umana, vivendo la nostra piccola vita. Durante la sua vita passibile anche lui era condizionato dal tempo, dallo spazio; se viveva in un luogo, non viveva in un altro. E, condizionato dal tempo, cresceva – come dice il Vangelo – in età, sapienza e grazia, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, ma ora non più. L’unica differenza che esiste fra Il Bambino che nasce a Betlemme 2000 anni fa e il Cristo che vive ora con noi è il fatto che, risorto da morte, Egli è invisibile, sì, ma presente a ciascuno; è invisibile, sì, ma tutto si dona a ciascuno.

Voi farete, almeno molti di voi faranno la comunione. Che cosa ricevono nella comunione? Tutto il Signore. Non abbiamo un’esperienza di questo dono, è vero, però noi sappiamo con certezza, con fede, che tutto Dio si dona ciascuno. Ecco vedete, eppure a me avviene qualche volta, posso fare la comunione e magari distrarmi. È una cosa impressionante: com’è possibile accogliere Dio e anche distrarci? Ma è così: Dio discende proprio fino alla nostra povertà. Non cambia nulla, ma è tutto cambiato. Egli è nostro, Egli diviene la nostra gioia e la nostra ricchezza.

Miei cari fratelli, non voglio trattenervi di più. Dico soltanto questa cosa: ricordatevi che la vita dell’uomo quaggiù è una notte che terminerà soltanto nella manifestazione del Cristo. Il mistero ci avvolgerà sempre, ma, se ci avvolge il mistero, nella fede noi sappiamo che – pur nella notte – Uno c’è vicino, Uno ci segue, Uno ci accompagna, Uno ci porta, Uno ci protegge e ci difende.  Non dubitiamo di Dio, non ci smarriamo; non angustiamoci troppo. Viviamo nella pace e nell’abbandono, viviamo nella semplicità di una vita che è comunione continua con Colui che ci ha amato e ci ama e non ci lascia mai più.

Omelia mons. G. Simoni

Mons. Gastone Simoni

Omelia nell’anniversario dell’ordinazione sacerdotale di don Divo Barsotti (18 luglio 1937)

Parrocchia di Santa Maria a Settignano, 18 luglio 2020

[Letture del giorno: Mi 2, 1-5; Sal 9; Mt  12, 14-21]

Fratelli e sorelle,

queste due letture dall’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento sono tali da farci meditare sul rapporto fra due persone che hanno illustrato Firenze e tutta la nostra zona. Mi riferisco naturalmente a don Divo Barsotti e a Giorgio La Pira. Ho già rammentato La Pira all’inizio di questa celebrazione perché si deve a lui il fatto che don Barsotti dalla diocesi di San Miniato sia passato a Firenze. Firenze, che è stato l’ambiente ecclesiale e civile dove è cresciuta la sua voce di sacerdote, la sua illuminazione nei confronti di tante persone e la sua fecondità spirituale ed apostolica.

Leggendo la prima lettura, dal profeta Michea – uno dei profeti classici, su per giù del tempo di Isaia e di Osea -, si potrebbe dire che questa pagina sarebbe stata molto cara a La Pira. In questa pagina, infatti, il profeta Michea, che parla in nome di Dio nell’ambito della Giudea, insegna quella che potremmo chiamare oggi l’etica sociale, la dottrina sociale e morale della Chiesa:  l’insegnamento che viene da Dio tramite la Chiesa, e che riguarda le relazioni nell’ambito della società umana, a livello locale e a livello globale. Michea, come abbiamo ascoltato, ha scritto qui una pagina molto severa nei confronti di coloro che, approfittando del loro potere, potere economico-sociale più che politico, spadroneggiavano sui poveri e li umiliavano. “Ascoltate dunque ciò che dice il Signore: «Su, fa’ lite con i monti e i colli ascoltino la tua voce!  Ascoltate, o monti, il processo del Signore…»” (Mi 6, 1-2). Una pagina sul processo di Dio a coloro che sono gli accaparratori della ricchezza ingiusta e, ingiusti loro, profittano del loro potere. Non si contentano di essere in alto nella società ma vogliono schiacciare, rendere sempre più bassi, sfruttandoli, coloro che non hanno nulla: i poveri. Leone XIII li avrebbe chiamati i ‘proletari’, coloro che hanno per loro solo la prole, non hanno altro.

“«Ascoltate, o monti, il processo del Signore […] perché il Signore è in lite con il suo popolo,” –  col suo popolo, non con gli altri! – “e intenta causa con Israele. Popolo mio, che cosa ti ho fatto?»” (Mi 6 2-3). Queste parole noi le ascoltiamo e riascoltiamo durante la Settimana Santa. “«In che cosa ti ho stancato, ti ho deluso? Rispondimi.  Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,  ti ho riscattato dalla casa di schiavitù e ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria?»  […] Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno?  Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere, per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono, ciò che richiede il Signore da te.” (Mi 6, 3-8) Cosa? Che cosa richiede il Signore da te, popolo del Signore? Da te,  persona credente, da te, comunità credente, che cosa ti richiede? Nel mondo, nella società, in mezzo alle genti, che cosa ti richiede perché tu ti distingua? “Praticare la giustizia, amare la pietà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Non l’accaparramento di beni su beni, non tutto quello che ti fa comodo per la tua vita, per il tuo onore, per la tua sazietà temporale. Pratica la giustizia! Di quale giustizia si parla? Evidentemente qui intende la giustizia nei rapporti sociali, tra il popolo. Non umiliare i deboli, i poveri ma aiutarli, promuoverne la vita. Considerarli persone umane da liberare dai pesi ingiusti che portano, frutto della cattiveria e dell’egoismo dei più potenti, di coloro che hanno e vorrebbero avere ancora di più. Noi, a questo proposito, potremmo ricordare anche la legge del giubileo in Israele.

Si capisce come questi testi di Isaia, di Geremia, di Michea, di Amos, siano considerati dei testi basilari per la dottrina sociale della Chiesa per l’indicazione del dovere e dell’esigenza della giustizia, dei vari tipi di giustizia, che praticamente coincide con la liberazione dai pesi gravosi e ingiusti che pesano sulle spalle della povera gente, a livello locale e a livello globale.

Queste parole, questi messaggi sono attualissimi, lo sappiamo bene! E sono stati particolarmente cari, appunto, ad una persona come Giorgio La Pira. Ma erano cari anche a don Divo Barsotti; a parte alcune piccole incomprensioni verso, si potrebbe dire,  l’eccessiva sfiducia nel progresso del mondo e nella speranza che poteva connotare, in qualche modo, l’apostolato di La Pira, il suo pensiero. Lui vedeva nel futuro splendore, novità, gloria di Dio, liberazione dei poveri, pace sulla terra, fino a sfiorare quella che don Barsotti diceva essere un po’ una pericolosa tendenza millenarista, come  se ci fosse preparato sulla terra, nella storia umana del nostro futuro,  un millennio di pace e di giustizia. E Barsotti a ripetere che non si dovevano coltivare queste eccessive fiducie come se il peccato non ci fosse più nel mondo. Ma Barsotti coincideva con La Pira quando si trattava di difendere la povera gente.

Questa pagina che chiamerei “lapiriana” per certi aspetti è anche “barsottiana”, nel senso che egli ha assolutamente condiviso la predicazione della liberazione dei poveri dagli ingiusti perché si affermasse una società la più giusta e più fraterna possibile; e perché? Perché corrispondente al volere di Dio, alla giustizia di Dio. La giustizia umana è tale, è veramente realizzabile ed è da realizzare perché è la giustizia di Dio: questa è la nota fondamentale di don Barsotti. Ma era la stessa nota fondamentale di La Pira. Anche La Pira vedeva il programma di giustizia, di liberazione, di fraternità nel mondo, nel mondo dei rapporti sociali e nei rapporti fra le nazioni, in nome di Dio, in nome di Cristo, in nome dei profeti, dei profeti di Dio, di Israele e degli apostoli di Cristo. Non c’era contrasto. Mai c’è stato contrasto, da questo punto di vista, tra il La Pira liberatore dei poveri, propagatore della giustizia e della pace nel mondo, e il Barsotti che viveva la vocazione di custodire, di far capire alla gente, ai cristiani, alla Chiesa anzitutto, la giustizia di Dio. E praticamente cosa è la giustizia di Dio? Il progetto di Dio per un’umanità giusta e fraterna. Ma per un’umanità non solo giusta e fraterna nei rapporti fra persona e persona, fra gruppo e gruppo, fra nazione e nazione, ma giusta e fraterna perché fondata sull’essere figlioli di Dio tutti, tutti! La giustizia di Dio è il piano di Dio per il bene dei suoi figlioli nel mondo, basato sulla loro condizione radicale di essere figlioli di Dio, quindi fratelli fra di loro. Il primato di Dio: ecco la giustizia particolarmente sottolineata da don Barsotti.

Il primato di Dio! Non ci si avventuri a compiere dei sogni terrestri sulla base dell’ateismo o sulla base di una dimenticanza, di un’emarginazione più o meno non teoretica ma pratica di Dio dal consorzio umano, dai dibattiti sociali, perché tutto quello che è a favore della vita umana, della fraternità umana, della giustizia umana, del benessere umano sulla terra, è basato sul volere supremo di Dio. La giustizia di Dio è il progetto di Dio per tutti i suoi figli nel mondo, progetto di Dio che trova il suo compimento nell’amicizia di ciascuno di loro, dei suoi figlioli nel mondo con Lui, nell’amore di Lui, nella recezione dell’amore di Lui verso di loro e nell’espressione dell’amore di loro verso di Lui, che porta con sé la conseguenza dell’amore fraterno fra di noi.

C’è una coincidenza in questo, fra la giustizia tra gli uomini concepita e favorita da La Pira e la giustizia di Dio che era tanto cara a don Barsotti, ma al tempo stesso allo stesso La Pira. Tutta la predicazione di La Pira in qualche maniera, se si leggono le sue pagine, era sempre nell’ambito della sua visione del progetto divino sulla storia umana, sulla società umana. E questo è lo specifico di Barsotti. Qual è lo specifico di Barsotti, se si leggono bene le sue pagine, se ricordiamo le parole che abbiamo ascoltato da lui, la sua passione profetica? Qual è il suo specifico? Non anzitutto, certo, la giustizia terrena ma anzitutto la giustizia di Dio, ma intesa come diritti di Dio per noi e doveri fondamentali nostri nel riconoscere anzitutto Dio origine della nostra vita, padre della nostra vita, salvatore della nostra vita. E nel riconoscere che solo da questa base, da questo fondamento deriva la giustizia tra i fratelli, la giustizia tra i figli di Dio nel mondo. E anche nel corso della loro storia terrena, per quanto battuta dal male, neppure don Barsotti si rassegnava alla miseria ingiusta del mondo; come La Pira. Ma don Barsotti ha particolarmente messo in risalto la giustizia di Dio, il primato della giustizia di Dio, concepita come suo progetto riguardante i suoi figlioli, da cui promana anche il progetto di una sistemazione fraterna, pacifica dei suoi figlioli nel mondo.

Ecco, allora, la pagina del Vangelo di Matteo, che ci parla, appunto, di Gesù. Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo affidando a noi la parola della riconciliazione, che è anzitutto riconciliazione di noi con Dio attraverso Cristo, il riconciliatore, il salvatore. I farisei, dice il Vangelo di Matteo al capitolo 12, tennero consiglio contro Gesù per farlo morire; perché? Perché aveva esercitato il suo ministero secondo il suo programma esposto a Nazaret di realizzare un giubileo liberante per tutti i figli di Dio oppressi nel mondo dai dolori, dalle ingiustizie, dalle cattiverie. E  allora, Lui che guarisce nel giorno di sabato, Lui che permette ai suoi discepoli di cogliere un po’ di spighe di grano da mangiare quando hanno fame, Lui che fa capire la relatività della legge mosaica e anche di tutte le leggi che ne conseguivano, perché il sabato vero è anzitutto la cura dell’uomo e non l’osservanza di alcune disposizioni. Si osservano certe disposizioni perché servono, sono relazionate alla cura dell’uomo, alla cura della vita umana, alla sua serenità, alla sua gioia, alla sua pace. E così Gesù è visto come il Servo; qui Matteo cita Isaia: “Ecco il mio servo che ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà la giustizia alle nazioni” (Is 42, 1). Ma la giustizia che Gesù annuncia alle nazioni è anzitutto la  giustizia di Dio, il riconoscimento dell’unico Dio, della sovranità di Dio, della sovranità che è la gloria del mondo, della sovranità che coincide coll’estendersi dei suoi figlioli nel mondo. Non è separabile il bene umano dal riconoscimento del primato assoluto di Dio.

Questo dicono i profeti, questo dice Gesù, questo insegnava Barsotti, questo insegnava anche La Pira. Questo uomo nuovo, mite, che non spezza una canna già incrinata, non spegne una fiamma smorta perché deve far trionfare la giustizia in modo che nel suo nome possano sperare le nazioni (cfr. Is 42, 2-3). La giustizia che è insieme, appunto, volontà di Dio, progetto di Dio sulla vita e la convivenza umana da cui consegue la possibilità nel mondo di sperare, di avere una speranza di miglioramento nel mondo anche dal punto di vista terreno.

C’è una coincidenza assoluta nonostante, ripeto, alcune precisazioni e possibili incomprensioni tra i due grandi profeti che abbiamo avuto a Firenze; una coincidenza profonda nel vedere il primato della giustizia di Dio, del riconoscimento di Dio, del primato di Dio che porta conseguentemente il riconoscimento dei diritti umani, delle persone umane, dei gruppi umani, delle nazioni umane. Dobbiamo ringraziare Barsotti, dobbiamo ringraziare La Pira, perché ci hanno aiutato a penetrare più profondamente nella parola di Dio tramandata dai profeti, nella parola di Dio che ha trovato la sua completezza nella profezia e nell’atteggiamento di Gesù.

La giustizia di Dio in Gesù avrà il suo culmine: quando, fratelli e sorelle? Sulla croce! Quando egli si sottopone a quell’umiliazione, a quelle torture, a quel regno del male. Vi entra dentro non per restarvi prigioniero ma per sfondarlo e superarlo; e con la sua morte e la sua resurrezione e il dono dello Spirito far entrare nel mondo, appunto, lo spirito divino che riporta le persone al contatto con Dio, alla comunicazione con Dio e alla comunicazione fra loro. Grazie a Dio! Grazie a Dio!

Io credo che la più grande lezione di don Barsotti è proprio questa. Attraverso tutti i suoi commenti biblici, attraverso le sue contemplazioni e meditazioni profonde, attraverso la passione che metteva nel parlare che talvolta scuoteva le coscienze, la passione profetica di don Barsotti. La ricordiamo sempre espressa talvolta in un linguaggio molto calmo, molto mite, ma talvolta in uscite appassionate, forti, perché ci si ricordasse, appunto, del primato assoluto di Dio e del suo amore per noi e del dovere nostro di riamarlo, da cui provengono tutti i beni della terra.

Ringraziamo il Signore di avere avuto questo sacerdote, della fecondità che questo sacerdote ha sprigionato da sé perché unito al Signore. Quanta grazia ha diffuso, quanta luce ha acceso, quanta conversione ha suscitato, quanto movimento spirituale – i figli di Dio – ha favorito nella sua vita, nel suo ministero vario, nella sua vita abbastanza lunga dominata, nella libertà e nella consapevolezza più bella, da questa passione per Iddio e il suo primato assoluto! Benedetto e  distributore di benedizioni in mezzo al mondo. Allora, mentre noi ringraziamo il Signore del sacerdozio così fecondo, e voi ne siete la testimonianza più eloquente, di don Barsotti, esprimiamo anche noi il desiderio di essere persone che vivono tutti i giorni, momento per momento, sotto lo sguardo sovrano del Signore, sotto lo sguardo benedicente del Signore, sotto la sua misericordia. Perché alla fine la giustizia di Dio, come dicevo, si manifesta nella croce di Gesù, ma particolarmente in quelle parole straordinarie che sono: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Non è la giustizia punitiva nei confronti dei suoi nemici, di coloro che lo stanno sbeffeggiando dopo averlo torturato e giudicato, processato e condannato. La giustizia di Dio si manifesta nell’espressione della sua infinita misericordia. Addirittura, con quelle parole li sta quasi scusando Gesù: «Padre, perdona loro perché non vedono nulla, son ciechi, non sanno quello che fanno. Perdonali, Signore!». Questa è la giustizia suprema di Dio. La giustizia predicata dai profeti è incipiente nei confronti della manifestazione della rivelazione della giustizia di Dio che Gesù ha supremamente vissuto riassumendo tutta la sua vita e tutto il suo apostolato in quelle parole dette dall’alto della croce.

Ci aiuti, il Signore, ad essere giusti come il Signore ci vuole e a riconoscere la giustizia di Dio che coincide con il suo amore misericordioso.