Chi siamo

La Comunità dei figli di Dio

RITIRO (predicato da Divo Barsotti)
Casa S. Sergio – Domenica 20 luglio 1969

INTRODUZIONE – OMELIA
[Tempo liturgico: VIII domenica dopo Pentecoste – Letture: Rm 8, 12-17; Lc 16, 1-9]

[Avvertenza: Nel 1969 la Comunità era ancora strutturata nei 4 “Gradi” che più tardi furono sostituiti, con alcune varianti, dai 4 “Rami” attuali. Don Divo in questo ritiro presenta la sua Comunità nelle sue caratteristiche spirituali, che rispondono alla chiamata originaria da lui ricevuta e che, nonostante alcuni cambiamenti nella struttura, rimarranno invariate nella sostanza, pur adattandosi ai bisogni e agli sviluppi della Comunità stessa, così come il Signore gliela ha fatta crescere intorno.
Quella domenica si celebrava in ritardo l’anniversario dell’ordinazione di don Divo, che ricorreva il 18 luglio].

Schema della Lettera ai Romani

L’Epistola della Messa di oggi è un testo molto importante per noi. Come il motto della Comunità è stato tratto dal Sermone della Montagna [cfr. Mt 5, 45] – e veramente il Sermone della Montagna è la Magna Charta della nostra vita religiosa – così anche questa Epistola di san Paolo, e soprattutto questo testo e un altro testo simile nella Lettera ai Galati [cfr. Gal 4, 5-7], ci dicono quello che Dio aspetta da noi. Questo testo dell’Epistola ai Romani è forse il capitolo più alto per ispirazione profetica che abbia scritto san Paolo.

Vediamo un po’ lo schema della Lettera ai Romani. Dopo l’introduzione, san Paolo propone l’argomento della Lettera: in che modo? La giustizia di Dio si rivela nell’uomo dalla fede e nella fede, e il giusto è colui che crede. In realtà – dice san Paolo – tutti sono sotto la disobbedienza, tutti perciò dovrebbero essere condannati, sia i pagani che gli Ebrei: i primi perché, pur conoscendo Dio attraverso le opere della sua creazione, non lo hanno adorato come dovevano adorarlo, si sono fatti degli idoli e hanno prostituito la loro dignità di uomini adorandoli; così Dio ha prostituito loro abbandonandoli alle passioni più ignominiose: essi infatti sono senza giustizia, senza nessuna onestà. Ma anche tu, Ebreo, che hai ricevuto la Legge – dice san Paolo – anche tu sei guida di ciechi, anche tu sei sotto la condanna, perché, sapendo quello che Dio ti chiedeva, anche tu hai fatto come i pagani, anche tu sei andato contro la Legge di Dio. Dio ha concluso tutte le cose sotto la disobbedienza per fare a tutte misericordia. E in che modo fa misericordia? Dio manifesta a noi l’amore che Egli ci porta facendo morire per noi peccatori Cristo, suo Figlio.

È dunque nella morte del Cristo che noi siamo salvati: non per opera della Legge ma nella fede che noi dobbiamo avere per Cristo Signore. D’altra parte la giustizia di Dio – dice Paolo – deriva sempre dalla fede, fin da quando Dio ha giustificato il Primo che ha chiamato, Abramo. Perché solo in un tempo successivo ha dato a lui l’obbligo della circoncisione; ma fin dall’inizio invece l’ha giustificato mediante la sua fede: «Credette Abramo in Dio e gli fu computato a giustizia» [Rm 4, 3]. Non dunque delle opere deriva la giustificazione ma dalla fede che l’uomo ha in Dio.
Ora questa fede che Abramo ebbe in Dio tu devi averla in un Dio che non solo ti ha fatto promessa, in un Dio che non solo ti ha chiamato, ma in un Dio che è morto per te. Tutta la vita religiosa del cristiano dunque poggia sulla fede che egli deve avere in Cristo Signore. Di fatto, dice Paolo, noi tutti siamo stati battezzati nella sua Morte: il Battesimo ci ha fatto partecipare al mistero di questa sua Morte e Resurrezione; così, morti noi al peccato, possiamo rivivere in Lui la vita dell’uomo risorto. E la vita dell’uomo risorto in che consiste se non precisamente nel dono dello Spirito vivificante? È mediante la Resurrezione dai morti che Gesù è divenuto Spirito vivificante, è divenuto cioè uno Spirito che dà la vita. Ed Egli ci dà il suo Spirito, e nel dono del suo Spirito noi ora viviamo.

Questo, nelle sue linee essenziali, lo svolgimento della Lettera ai Romani. La nostra vita di grazia deriva dalla fede in Cristo Gesù. La fede in Cristo Gesù ci fa partecipare al suo mistero di Morte e alla sua Resurrezione. Il mistero di morte vuol dire per noi non vivere più Secondo la carne, dunque non commettere più peccato, non essere più schiavi del peccato; e vivere la Resurrezione del Cristo che cosa vuol dire? Vuol dire essere animati da un nuovo spirito, dallo Spirito di Dio.

Il cristiano, morto al peccato, vive per il dono dello Spirito

Avete presente la Genesi? Dio forma l’uomo, poi che cosa fa? Gli alita sul volto lo spirito di vita [cfr. Gen 2, 7]. L’uomo vive soltanto del dono dello spirito che lo anima. Ma la prima creazione dell’uomo è l’immagine della seconda. Se l’uomo dunque è morto, come fa a vivere? Se è morto al peccato, come fa a vivere? La morte, di per sé, non è la vita. Partecipe della Morte del Cristo, egli è partecipe anche della sua Resurrezione. Ma come è partecipe della morte nel fatto stesso che egli rinunzia al peccato, che egli muore alla carne, che egli rompe la sua solidarietà col male, come diviene ora partecipe alla vita del Cristo? Per il fatto che in Cristo dona all’uomo il suo Spirito. É nel dono dello Spirito, nel fatto che tu vivi lo Spirito di Dio, che tu sei vivo.

Di qui deriva un fatto molto importante: sul piano naturale noi siamo soltanto dei morti. Non vi è atto umano possibile per noi, non viviamo più Secondo la legge, non può esservi in noi una vita Secondo la legge, e nemmeno una vita Secondo il peccato, perché siamo morti al peccato [cfr. Rm 6, 2]. Noi viviamo soltanto se siamo animati dallo Spirito di Dio [cfr. Rm 8, 1; 14-15]. Ecco quello che ci dice oggi l’apostolo Paolo. Figli di Dio, noi dobbiamo vivere Secondo il suo Spirito: figli di Dio, noi lo siamo nella misura che abbiamo ricevuto lo Spirito e nella misura che poi ci lasciamo modellare da questo Spirito, che ci lasciamo investite e vivificare da questo Spirito. Lo Spirito di Dio è lo Spirito che ci anima, il principio vitale che ci muove. Tutta la nostra vita è sotto l’azione dello Spirito. Ecco che cosa vuol dire essere figli di Dio.

Allora aveva ragione San Serafino di Sarov quando diceva che tutto consiste nell’accogliere lo Spirito Santo. Effettivamente non c’è per noi nessun’altra possibilità di vita che nell’acquistare lo Spirito Santo, che nel vivere nello Spirito Santo, che nell’essere mossi dallo Spirito Santo. «Qui spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei – Quelli che sono mossi dallo Spirito divino, questi sono figli di Dio» [Rm 8, 14], perché soltanto nella misura che siamo mossi dallo Spirito di Dio possiamo dirci figli di Dio. Siamo uomini in forza della natura che abbiamo ricevuto dalla nostra madre, ma siamo figli di Dio nella misura del Cristo, risorgendo da morte, ci ha donato il suo Spirito.

Qual è il Primo atto che compie Gesù quando, risorgendo da morte, appare ai discepoli del Cenacolo, Secondo il Vangelo di Giovanni? «Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”» [Gv 20, 22]. Nasce la nuova umanità: Quella pagina del Vangelo di San Giovanni è in contrapposizione alla prima pagina della Genesi: l’uomo, formato dalle mani di Dio col fango della terra, riceve la vita nell’atto in cui Dio alita su di lui il suo Spirito. Ora l’umanità, partecipe del Verbo di Dio nella morte, diviene partecipe del Verbo di Dio risorto da morte, nel dono che il Verbo di Dio incarnato fa a questa umanità del suo Spirito. Nasce la nuova umanità. Noi siamo i figli di questa nuova creazione.

Il cristiano vive del dono dello Spirito

Ricordatevi di quello che diceva sant’Ireneo: il cristiano non è formato soltanto di anima e corpo ma di anima, corpo e Spirito Santo. È vero che questo non è esatto teologicamente perché lo Spirito Santo non entra in composizione con l’uomo, non fa parte dell’uomo ma lo trascende infinitamente; tuttavia, veramente Cristo Signore ci ha donato lo Spirito. Ed è nel dono del suo Spirito che noi viviamo. Ci crediamo che sia lo Spirito Santo a vivere nei nostri cuori?

La prima cosa da domandarci è se veramente lo Spirito Santo è nei nostri cuori. Per credere bisogna pur che l’abbiamo ricevuto. L’abbiamo noi ricevuto? Certo l’abbiamo ricevuto nel giorno del nostro Battesimo, nel giorno della Cresima; io l’ho ricevuto ancora di più nel giorno della mia Ordinazione sacerdotale. Lo Spirito Santo veramente si è infuso in noi e fa di noi lo strumento delle sue operazioni. L’anima vive attraverso il corpo; il corpo dell’uomo diviene lo strumento attraverso il quale l’anima vive. Che cos’è la morte? È la separazione dell’anima dal corpo. Quando l’anima si separa dal corpo l’uomo muore. Se questo è vero per l’uomo naturale, per il cristiano è vero che tutta la sua vita dipende dallo Spirito Santo che ha ricevuto.

Ma non si tratta di ricevere soltanto il dono dello Spirito. Quante volte vi ho detto che io ritengo dottrina rivelata che Dio ci ha donato il suo Spirito! Altrimenti si fa dire alla Parola di Dio quello che non dice. Che noi non riusciamo a comprendere queste parole lo capisco bene, perché è impossibile che l’uomo capisca le parole di Dio; ma che io debba trasformare le parole di Dio perché non le capisco, no. Io non posso non accettare la parola di Dio. Dio mi ha dato il suo Spirito.

Ma non si tratta soltanto del dono dello Spirito. Lo Spirito non è una cosa che possiamo ricevere e poi possiamo usare o non usare: lo si può ricevere soltanto nella misura che ci lasciamo possedere da Lui, nella misura che diveniamo strumento della sua operazione. Come il corpo è strumento dell’anima per le sue operazioni, così nel dono dello Spirito tutto l’uomo diviene strumento dello Spirito, e tutte le operazioni dell’uomo devono essere operazioni di Spirito Santo, a una certa imitazione di come lo furono le operazioni del Verbo di Dio fatto carne. Anche l’umanità di Gesù fu strumento delle operazioni dello Spirito Santo. Per questo nel Vangelo si dice continuamente che tutte le operazioni di Gesù erano compiute nello Spirito Santo: nello Spirito Santo Egli è battezzato, entra nel deserto, prega («exsultavit Spiritu Sancto – esultò nello Spirito Santo» [Lc 10, 21]), per lo Spirito Santo Egli dà la sua vita per noi.

Tutta la vita, tutta la preghiera, tutta la vita interiore ed eterna di Gesù è vissuta in dipendenza dallo Spirito Santo. Così la vita nostra deve essere vissuta nello Spirito Santo: lasciarci docilmente formare dallo Spirito, lasciarci muovere dallo Spirito Santo, lasciarci portare dallo Spirito Santo: non solo quando si tratta del corpo ma anche quando si tratta delle operazioni più interiori dell’anima, sempre vivere con docilità nei confronti dello Spirito. Questa è la vita cristiana.
Dobbiamo sentire dunque che per noi vivere vuol dire strapparci a noi stessi per appartenere a un Altro; è un Altro che deve avere ogni potere su di noi, perché lo Spirito Santo non entra in composizione con l’uomo ma trascende l’uomo, pertanto lo Spirito Santo non può essere il principio vitale della tua vita che in un atto che continuamente ti strappi a te stesso, al tuo egoismo, alle tue ambizioni, alla tua sensualità, per lasciarti muovere da Lui. Nella misura che sei tu a vivere non è lo Spirito Santo che vive in te. Certo, vivendo lo Spirito Santo in te, sarai tu a vivere, ma il Primo atto che s’impone perché lo Spirito Santo sia principio di vita per te è quello di strapparti a te stesso perché Egli viva in te. Tu vivi la vita di Dio nella misura che non vivi più la tua vita.

Vivere, per noi cristiani, vuol dire precisamente questo. È certo che tutti i cristiani debbono lasciarsi muovere dallo Spirito di Dio, debbono vivere perciò in una docilità sempre più pronta allo Spirito Santo che vive in loro; ma quando maggiormente questo è vero per noi sacerdoti!
Le distinzioni che si compiono nella Chiesa sono due, tutte e due fondamentali, ma ognuna indipendente dall’altra: religiosi e non religiosi; laici e sacerdoti. Così, di per sé non è essenziale al sacerdozio tutto quello che è essenziale alla santità, in senso canonico, e perciò non è essenziale di per sé al sacerdozio la castità perfetta, come non è essenziale di per sé al sacerdozio che esso sia «a tempo pieno», come dicono oggi. La Chiesa potrà domani permettere anche un clero sposato e un sacerdozio «a tempo libero»; però bisogna vedere: se il laico già di per sé è chiamato alla perfezione, quanto più il sacerdote! Cioè, certo che gli atti del sacerdote rimangono validi anche se il sacerdote è sposato, anche se egli dona alla Chiesa soltanto un’ora alla settimana; tutti gli altri giorni può vivere per sé. Però, mentre la professione di un laico ha un senso e un valore anche indipendentemente dal Cristianesimo (un medico non è un medico perché è cristiano; essendo un cristiano dovrà vivere la sua perfezione di medico su un piano anche soprannaturale, ma vivrebbe come medico anche se non fosse un buon cristiano), per il sacerdote non è così.

La vita del sacerdote deve essere completamente donata

L’attività del sacerdote è totalmente soprannaturale. Io non posso pensare dunque che venga sottratto qualcosa della mia vita alle esigenze del mio ministero. Se voglio vivere il mio sacerdozio fino in fondo, necessariamente non posso vivere che in una docilità totale allo Spirito Santo, in ogni mio atto, perché io non sono più: io non ho più la mia vita indipendentemente da un sacerdozio. Un medico può essere medico anche se non è cristiano, ma io, se non sono sacerdote, che cosa sono? Non sono più nulla.

[…] Il sacerdozio esige che tutta la nostra vita sia totalmente presa dallo Spirito divino in tal modo che noi non abbiamo più il bisogno di qualificarci attraverso altre attività. Se dunque ogni laico deve vivere nella docilità allo Spirito Santo, quanto più il sacerdote!

Ecco perché in fondo, si noti bene, se per voi c’è stata una duplice effusione dello Spirito Santo nel Battesimo e nella Cresima, per me ce n’è stata un’altra, quella dell’Ordinazione sacerdotale. Io ho ricevuto lo Spirito Santo non dico più di voi, perché il “più” non esiste quando si tratta dello Spirito Santo, che è indivisibile e uno, tuttavia l’ho ricevuto in un modo nuovo, per un’operazione che m’impegna più di quanto non impegna voi a far sì che tutta la mia vita sia la vita stessa del Cristo. La mia umanità si è offerta a Dio per essere un’umanità aggiunta al Verbo di Dio. Come l’umanità di Cristo fu lo strumento scelto da Dio perché il Verbo di Dio potesse operare la salvezza del mondo, così, ora che il Verbo divino non vive più in mezzo agli uomini nella sua umanità sacrosanta come strumento della sua divinità, io mi sono offerto a Lui perché la mia umanità fosse strumento di queste operazioni divine. E di fatto io agisco, parlo, opero in persona Christi – al posto di Cristo. Quando consacro è il Cristo che opera attraverso di me, quando io perdono è il Cristo che perdona attraverso le mie parole, quando io parlo è il Cristo che parla attraverso di me. Ma tutto questo come è possibile? È possibile soltanto nella misura che io mi lascio possedere dallo Spirito di Dio.

Nella misura che io mi lascio possedere da questo spirito il Cristo continua attraverso di me la sua missione.

Ora, quello che si impone per tutti noi è questo: renderci conto che nella misura che non è lo Spirito Santo che ci muove tutte le nostre azioni sono morte, nascono morte. Nascono da una natura morta. Siamo morti al peccato, dunque ci siamo liberati del giogo della Legge. Non c’è più possibilità di vivere che in quanto siamo animati dallo Spirito di Dio. Uno che è morto non può vivere che di una vita risorta, altrimenti non vive, è incapace di compiere degli atti di vita. E noi siamo morti. Il Cristianesimo ha voluto dire per noi l’essere sepolti con Cristo nella morte, ha detto san Paolo [cfr. Rm 6, 4; Col 2, 11]; e allora come possiamo vivere? Non viviamo mica perché mangiamo o perché respiriamo: il cristiano non vive perché mangia o perché respira. Noi viviamo perché lo Spirito Santo ci è stato donato. Il Cristo, nel Cenacolo, alita sopra gli apostoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo». Vi ho detto che questa pagina fa da pendant alla creazione di Adamo: la parola di Gesù crea una nuova umanità. Ricordate la grande visione del profeta Ezechiele? Nel nome dello Spirito le ossa ritornano vive [cfr. Ez 37, 1-10].

Nella misura che non ci lasciamo modellare e muovere dallo Spirito Santo noi compiamo delle azioni morte: sono azioni morte per noi il camminare, il mangiare, il dormire, e anche pregare, far la carità, il far del bene, tutto quello che facciamo, se in tutto quello che facciamo non è lo Spirito Santo che ci muove. Non è il fatto che noi facciamo l’elemosina o preghiamo che dice che noi viviamo: è il fatto che noi in questi atti siamo animati dallo Spirito Santo. Per noi il vivere vuol dire dipendere dallo Spirito Santo che ci è stato donato. È della vita dello Spirito che noi viviamo. Come senza l’anima l’uomo muore, così senza lo Spirito divino il cristiano muore; qualunque cosa faccia, rimane un uomo morto; anche se dà il suo corpo alle fiamme, anche se dà tutti i suoi beni ai poveri, come dice san Paolo nella Lettera ai Corinzi [cfr. 1 Cor 13, 3], non compie che azione morte. È soltanto un morto che cammina, un morto che agisce.

La docilità allo Spirito è fondamentale per noi

Tu vivi soltanto nella misura che sei docile allo Spirito di Dio che vive in te. Ecco la legge fondamentale dei figli di Dio. E noi siamo figli di Dio. Dicevo che questo testo della Lettera ai Romani è fondamentale per noi; di fatto gli articoli 3 e 4 delle Costituzioni non sono altro, si può dire, che una interpretazione di questo testo: «docilità allo Spirito per divenire figli di Dio ed essere la lode del Padre».

Per noi si impone questo prima di ogni altra cosa, perché il Cristo ci rimane estraneo fintanto che nel suo medesimo Spirito non siamo uniti a Lui. È nel suo medesimo Spirito che noi veniamo a far parte del suo corpo. Un braccio amputato non ha più vita in sé: bisogna che sia attaccato al corpo perché il principio vitale del corpo lo animi. Ed è quello che avviene oggi nella nuova chirurgia: il membro che è stato staccato a causa di un qualche incidente viene riattaccato e torna a vivere perché il principio vitale del corpo torna ad animarlo. È precisamente questo che avviene nel Cristianesimo. Lo Spirito Santo, che è dato anche a noi, unisce noi come membra al suo corpo e fa sì che noi col Cristo viviamo una sola vita perché è un solo Spirito che anima noi e Lui, il Capo e le membra. Ma se lo Spirito del Cristo non ci anima noi siamo membra tagliate: siamo membra tagliate del Cristo che non vivono più la sua vita.
Di qui deriva per noi non l’importanza ma l’assoluta necessità di vivere nell’obbedienza dello Spirito Santo. Non contano nulla i comandamenti di Dio se tu non sei nello Spirito di Dio. Certo, se sei nello Spirito divino compirai quello che la volontà divina esige da te, ma se tu compi quello che il Signore sembra chiederti, indipendentemente dall’azione dello Spirito che ti muove, le tue azioni sono morte, non hanno nessun valore per la vita eterna, non sono azioni soprannaturali.

Tutto sta qui: nel ricevere lo Spirito, nell’esser mossi dallo Spirito. Ecco perché la legge del cristiano è una sola: docilità allo Spirito Santo. Ma prima della docilità allo Spirito Santo si impone per noi l’epíclesis, [= l’invocazione]. Voi sapete l’importanza che ha avuto sempre nella Liturgia ortodossa l’epíclesis anche per la Messa.

[…] Non possiamo separare l’epíclesis dalla Consacrazione. E vedete che nelle Preghiere eucaristiche nuove l’epíclesis è sottolineata in modo particolare. Mentre nel Canone romano antico l’epíclesis è detta in un modo piuttosto implicito (lo Spirito Santo non è neanche nominato), in quello nuovo si dice sempre in modo esplicito: «Manda lo Spirito Santo, ecc.». Sono parole estremamente importanti.

La vita della Chiesa è una Pentecoste perenne

La vita della Chiesa dipende dall’azione dello Spirito, che viene continuamente in lei. Tutta la Chiesa è una Pentecoste perenne. Dio non si possiede che in quanto viene: Egli è «Colui che è e che viene» [cfr. Ap 1, 8], sempre.

Tutta la Chiesa vive nella presenza dello Spirito, ma è una presenza che non è statica: è la presenza di un Dio continuamente donato, perché lo Spirito Santo è dono. Per questo questa continua venuta dello Spirito nella Chiesa dice la vita della Chiesa. La vita della Chiesa credete che sia l’elezione dei Papi? Credete che siano le encicliche? No: è la discesa dello Spirito Santo nella umanità. Queste è la vita della Chiesa, questa continua venuta di Dio nel suo Spirito nella umanità, così da formare dell’umanità il Mistico Corpo di Cristo. La vita nella Chiesa è il dono dello Spirito Santo.

Ma se tutta la nostra vita è in dipendenza dallo Spirito divino, tutta la nostra vita in quanto non è dipendenza dallo Spirito è aspirazione allo Spirito, è invocazione allo Spirito. È quello che diceva san Serafino di Sarov: la nostra vita non dovrebbe essere soltanto implorazione della misericordia di Gesù – «Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me» – ma anche e sempre: «Veni, Creator Spiritus – Vieni, Spirito creatore»; «Vieni Spirito Santo, discendi sopra di noi!»: aprire in ogni istante la nostra anima perché Dio vi si effonda.

Dicevo che voi avete ricevuto due effusioni dello Spirito. Ma credete di averlo ricevuto soltanto quando siete stati portati al Battesimo e quando il vescovo ha imposto sopra di voi le mani nella Cresima? No: di lì ha avuto inizio una effusione dello Spirito che non cessa più: una effusione dello Spirito in quanto battezzati, una effusione dello Spirito in quanto perfetti cristiani con la Cresima; e voi ricevete continuamente questo Spirito come perfetti cristiani. Cioè lo Spirito Santo in voi si diffonde in ogni istante, perché è un atto che continua, che non finisce, che non ha più termine, come ogni atto divino.

Ogni atto divino non è legato al tempo, non è chiuso nel tempo, è piuttosto l’atto nel quale ogni tempo si dissolve. Dio discende in voi, Dio si diffonde in voi anche oggi, anche domani, e sempre, per tutta l’eternità: non come un ripetersi di atti ma con un atto solo che è la vostra medesima vita.
E come si effonde? Come Spirito che vi fa perfetti cristiani, che cioè fa di voi degli uomini adulti nel campo spirituale, capaci perciò non solo di essere figli di Dio, ma di vivere come figli di Dio. La nostra nascita umana ci fa uomini, ma non ci fa capaci di vivere come uomini: questa è l’effusione dello Spirito nel Battesimo; ma l’effusione dello Spirito nella Cresima non soltanto ci dà la natura di figli e ci fa partecipi della figliolanza divina, ma ci fa capaci di vivere secondo questa figliolanza divina. È questo che distingue la vita cristiana.

Il mio sacerdozio non aggiunge nulla per quanto riguarda la mia santità: più che cristiani perfetti non possiamo essere. Il mio sacerdozio è soltanto un ministero che è a servizio delle vostre anime. Ma la santità mia e vostra dipende dalla effusione dello Spirito Santo, in quanto Spirito ci fa perfetti cristiani, ci abilita a vivere come cristiani.

Il programma della nostra vita

Ecco perché le parole dell’Epistola di oggi sono il programma della nostra vita e non vi è per la nostra vita altro programma: «Qui Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei – Quelli che sono mossi dallo Spirito divino, questi sono figli di Dio» [Rm 8, 14].

Ma per essere mossi dallo Spirito di Dio noi dobbiamo ad ogni minuto strapparci a noi stessi, dobbiamo accogliere continuamente questo Spirito che si dona a noi. E nella misura che siamo docili a questo Spirito e ci lasciamo muovere da Lui, noi siamo figli di Dio, ed essendo figli di Dio esclamiamo: «Abba! Padre!» [cfr. Rm 8, 14-15; Gal 4, 4-7]. Il dono dello Spirito ci unisce al Cristo e ci fa figli di Dio per essere la lode del Padre: «Laudem gloriae», come diceva suor Elisabetta della Trinità.

Che cosa dice la Genesi avanti della creazione, proprio come a volerci parlare per preparare la narrazione della creazione di tutte le cose? Che lo Spirito di Dio «covava sulle acque» . Lo Spirito di Dio aleggia sopra l’abisso del nostro essere. Ce lo dice la psicoanalisi di oggi, quale abisso è la nostra anima: il subconscio, l’inconscio… da questo abisso dell’essere umano Dio trae la nuova creazione nella luce della gloria del Padre.

La trae per azione dello Spirito se noi accettiamo. Non si tratta più della creazione del sole, della luna, delle piante, degli animali, ma di questa effusione di vita che rende l’uomo figlio di Dio.

Un’unica dimora in cielo

Mi sembra che il Signore non potesse usarmi una gentilezza più squisita di questa, di volere che la mia Ordinazione si compisse proprio in un giorno in cui si proclama questo concetto che è fondamentale non per me solo, ma per tutta la Comunità. È una cosa che ha sempre destato in me un senso di stupore e di riconoscenza infinita, che ogni anno dovessi celebrare la Messa di san Camillo: «Voi siete miei amici perché a voi ho detto tutte le cose che ho udito dal Padre mio… non siete voi che mi avete eletto ma sono io che ho eletto voi e vi ha scelto perché possiate portare buon frutto» [cfr Gv 15, 15-16].

Mi è sembrato una cosa meravigliosa che Dio avesse voluto legare la mia Ordinazione a quel giorno che mi ripete tutti gli anni le parole stesse che udii appena fui consacrato. Io venni consacrato il giorno di san Camillo, ma era anche l’ottava domenica dopo Pentecoste, e così si unisce questa lettura a quella sullo Spirito Santo, sul dono dello Spirito che ci fa vivere come figli per potere essere la lode del Padre. Non è questo, questo soltanto, che vuol essere la nostra vita? Se tutta la nostra vita è in dipendenza dallo Spirito, per san Paolo tutta la nostra vita si raccoglie nella vita del Padre.

La preghiera diviene l’atto per eccellenza della nostra vita, come puro amore, come puro riconoscimento di Dio.
E poi, nel Vangelo di questa domenica, Nostro Signore ha detto anche qualcosa per me in particolare: ha detto le parole del fattore infedele. Vedete, io dovrei andare all’inferno, ma ci siete tutti voi che mi porterete in paradiso! Sarete lassù, e una volta lassù ci tirerete anche me! È una cosa meravigliosa che il Signore mi dia un po’ di speranza, un po’ di fiducia precisamente a causa di tutte le anime verso le quali il mio ministero si è esercitato così da prepararle ad entrare negli eterni tabernacoli… Quando saranno negli eterni tabernacoli non vorranno mica restarci sole: chiameranno anche me! E magari apriranno la porticina di servizio perché Nostro Signore non se ne accorga e mi tireranno dentro! Che cosa meravigliosa! E ce ne ho già tante delle anime che mi aspettano, e magari all’insaputa di Nostro Signore, già mi preparano un posticino…

Com’è bello sentire che la nostra salvezza dipende proprio dalla carità degli altri, dal farci gli uni agli altri del bene, col prepararci gli uni agli altri la dimora nel cielo! Se io avrò portato anche un’anima sola a Dio, quest’anima, dopo che a Dio, deve avere riconoscenza anche a me. Che santo sarebbe se stesse in paradiso anche per merito mio e accettasse che io dovessi andare all’inferno? E allora io ho tanti amici. Sono un fattore infedele, ma ho mandato tanti amici lassù a prepararmi il posto. Come Gesù dice di Sé che Egli va al Padre per preparare un posto ai suoi discepoli [cfr. Gv 14, 3], così anch’io ho mandato qualcuno prima di me che mi preparasse il posto. E ora mi aspettano, e ora pregano per me. La mia sicurezza, dopo che in Dio, riposa su queste anime che ho amato e che mi amano e su queste persone che mi sono state vicine e alle quali sono stato vicino e che non possono dimenticarmi, come io non posso dimenticarle. La carità è fatta così. Nemmeno Nostro Signore ci può far nulla. Doveva fare le cose in modo diverso se voleva che fosse possibile che l’amante e l’amato fossero separati per sempre.

Posso anche essere stato infedele a Dio, ma quante anime sono a me unite e a quante anime io sono unito! E qualcuna di esse – che bellezza! – è già in paradiso e prega per me!
Vedete dunque quanto ci si guadagna a essere nella Comunità? Dicevo che questo Vangelo di oggi è fatto soprattutto per me, ma potete prenderlo un pochino anche per voi, e se anche voi vi sentite, come mi sento io, molto infedeli alla grazia, avete qualche speranza anche voi per il fatto che anche voi avete delle sorelle maggiori o minori alle quali avete potuto fare del bene o che vi hanno fatto del bene e che vi attendono in cielo.

PRIMA MEDITAZIONE: LA STRUTTURA DELLA COMUNITÀ

Vorrei parlarvi stamani proprio della Comunità. Già ne abbiamo parlato nell’omelia del Vangelo, e abbiamo detto che le parole di Paolo sono come il programma della nostra vita: più forse di qualsiasi altro testo della Sacra Scrittura sono la Magna Charta che dà un contenuto alla nostra vita, un senso alla Comunità; ma ora dobbiamo vederlo in modo più chiaro.

Quello che ci distingue è precisamente la struttura della Comunità, struttura che non ha soltanto un carattere giuridico: per me la struttura stessa, più che un valore giuridico, ha un valore spirituale. È un richiamo a quelle che sono le dimensioni stesse della vita cristiana, che non si possono trascurare senza che la stessa vita cristiana ne debba soffrire.

La struttura della Comunità per me ha prima di tutto un carattere spirituale: vuol essere vissuta in obbedienza precisamente a quello che è il carattere della vita cristiana.
Se noi pensiamo che la vita contemplativa implichi sempre più un sottrarsi agli uomini, alla Chiesa visibile, in fondo in tutto questo la vita contemplativa obbedisce ancora al neoplatonismo: è una evasione allora dal mondo umano, dal mondo ecclesiale per una comunione con Dio nella solitudine, una ricerca del «solo col Solo», come voleva Plotino.

Ora tutto questo è contrario al Cristianesimo. Io non ho mai voluto la vita contemplativa pura in un distacco assoluto e nemmeno ho mai pensato che il Primo, che il Secondo e il Terzo Grado siano come tanti gradini che portino al vertice del Quarto Grado; infatti ho sempre detto che non so quale sia il Grado più alto. Il Grado più alto è là dove si vive maggiormente l’amore.

La vita cristiana è perfetta quando è perfetta la carità. Ma la carità perfetta implica nello stesso tempo l’unione più intima con Dio e l’unità con tutta la Chiesa. Ora se un’anima, indipendentemente dal fatto giuridico, può realizzare tutto questo in qualunque stato di vita si trovi, perché a nessuna anima è negata la perfezione della carità, rimane però vero che se noi vogliamo creare una famiglia religiosa, la quale rimanga fedele a questa concezione della vita cristiana che implica allo stesso tempo una dimensione di verticalità che ci unisce a Dio e una dimensione di orizzontalità che abbraccia tutti i fratelli, si impone allora una famiglia religiosa che abbia nello stesso tempo questa dimensione orizzontale e questa dimensione verticale nella sua struttura. Ma allora il Quarto Grado non può pensarsi indipendentemente dal Primo, così come non può pensarsi il Primo indipendentemente dal Quarto. Se si pensa al Primo e al Secondo separatamente dal Quarto, ne viene che allora la vita della Comunità diviene soltanto una clericalizzazione del laicato. Cioè, questi buoni padri di famiglia diventeranno longae manus dei preti, i quali si serviranno di loro per i loro compiti; e allora non è tanto la vita religiosa che è veduta per prima, quanto piuttosto un certo servizio che essi possono rendere nel mondo: dato che i preti non possono agire nel mondo in tutti i campi, è meglio che ci stiano i laici, i quali possono prestare un loro servizio senza che la Chiesa ufficiale apparisca presente…

Non giudico nemmeno che questo sia un fatto del tutto negativo: dico semplicemente che questo non rispetta la vocazione religiosa del laico come tale, perché la vocazione religiosa del laico come tale non è quella del servizio; il carattere proprio della vita religiosa è la perfezione della carità cristiana, è l’unione con Dio e con i fratelli nella carità. Il servizio invece è proprio della gerarchia, cioè di quel sacramento che è proprio del sacerdozio. La vita religiosa, ripeto, non ha altro fine che quello della perfezione della carità, quello della santità. Il laico, se deve vivere una vita religiosa, deve impegnarsi alla vita religiosa non tanto per fare, quanto per essere, per realizzare la perfezione stessa della sua attività nella santità propria del cristiano.

Questo vale anche per il Quarto Grado , e allora bisogna renderci conto che il Primo Grado non è separato dal Quarto quasi che ne fosse diverso il contenuto: è il modo di viverlo che è diverso, non il contenuto. Non per nulla le preghiere stesse che sono proprie del Primo Grado sono anche proprie del Quarto. Se anche uno del Quarto Grado potrà dedicare più tempo alla preghiera, le preghiere normative della vita sia di chi vive nel Primo come di chi vive nel Quarto Grado sono le “quattro preghiere” della Comunità. Non si va mai oltre, e non credo che nessuno potrebbe pretendere mai di andare oltre la realizzazione di quello che queste quattro preghiere esigono dall’uomo.

Di qui deriva che il Primo Grado non può separarsi dal Quarto quasi che fosse un terz’ordine, come se quelli del Quarto potessero dire: «Ne abbiamo bisogno perché ci portano i soldi» o «Dato che noi siamo così pochini, ci fanno comodo per fare propaganda, per sonare un poco la grancassa intorno a noi… ».

Niente affatto: non abbiamo mai avuto questa visione del Primo Grado. Per noi un membro del Primo Grado, se vive veramente la sua Consacrazione, deve vivere esattamente lo stesso impegno religioso che vive uno del Quarto, deve tendere veramente alla santità. Dobbiamo dirlo molto fortemente, questo, perché tanti nella Comunità, anche se l’hanno sentito dire tante volte, non ci credono mica! E la Comunità non vive fintanto che non si vive questo.

Obbligo di tutti: la santità

Per questo vi ho detto altre volte che non ho paura di quelli che vanno via, ho paura di quelli che rimangono, cioè di chi realmente non vive un impegno di carità. Ogni membro, anche del Primo Grado, o si impegna veramente a raggiungere alla santità o è meglio che se ne vada. Perché quello che ci distingue è precisamente all’obbligo della santità (ve l’ho detto fin dal 1948), obbligo che per noi non è più remoto, ma ci impegna hic et nunc – qui immediatamente – e per questo non possiamo negare nulla al Signore, sia nel Primo, sia nel Quarto Grado. La santità rimane l’obbligo fondamentale e immediato – non remoto, ma immediato, prossimo – di colui che ha fatto la Consacrazione nella Comunità, a qualunque Grado appartenga. Questa è la concezione che noi dobbiamo avere. Perciò il Primo Grado vive esattamente lo stesso impegno religioso del Quarto; lo vive in modo diverso, naturalmente, perché ha altri doveri. E questo rende più difficile, forse, la sua risposta al Signore, non più facile.

Il Quarto Grado, d’altra parte, non dobbiamo concepirlo in una sua solitudine: «Io vivo solo, lontano da tutte queste donne, solo con Dio, beato in Dio… ». No, questo sarebbe non essere più cristiani. Sarebbe il colmo, vivere una vita di solitudine e di silenzio per non essere più cristiani! Allora è meglio sposarsi, perché allora è più facile essere cristiani.
Cioè, per dirlo in altre parole, l’amore di Dio non è mai perfetto se non implica l’amore del prossimo, l’unione con gli altri: non un amore affettivo generico, ma un amore concreto, che implica veramente l’unione.

Perché anche il Quarto Grado vive in unione col Terzo, col Secondo e col Primo? Perché altrimenti, se noi abbiamo un Quarto Grado che vive una pura evasione per stare unito a Dio, si ha una vita da neoplatonici, non da cristiani. Rendiamoci conto di una cosa: Nostro Signore ha vissuto nel Primo Grado, non nel Quarto! È vero che non ha vissuto il matrimonio, però non ha fatto voti religiosi ed è vissuto sempre in mezzo agli uomini, in unione con tutti, senza clausure, senza difese. Non è vissuto in convento, è vissuto sempre così, in mezzo al popolo, legato a tutti, a tutti, a tutti! Ma ha vissuto, in questo legame con tutti, l’unità col Padre nella misura più perfetta che possa essere vissuta da una creatura quaggiù.

Ora è precisamente questo che noi dobbiamo vedere anche del Quarto Grado. Se voi vedete nel Quarto Grado soltanto un modo per rendervi un poco più liberi da tante noie, da tanti fastidi che possono darvi gli altri, tutto questo non è cristiano. Certo, il Quarto Grado è una vita contemplativa pura che deve mettervi in condizione di poter vivere la preghiera come unico contenuto della vostra vita, mentre negli altri Gradi si deve vivere il rapporto con gli altri, la professione, ecc., cercando di trasfigurare tutto in preghiera. Questo è vero: nel Quarto Grado la preghiera è più pura, più piena; ma in fondo, il legame è uguale. […]

Io non ho mai detto che il Quarto Grado debba essere sul tipo dei monasteri tradizionali. Perché si dovrebbe fare delle brutte copie di quello che già esiste? Noi non vogliamo questo. Vogliamo che il Quarto Grado viva, sì, una vita contemplativa pura, ma per essere di aiuto, di sostegno a coloro che non possono viverla. Perché? Perché in questo legame che dobbiamo mantenere gli uni con gli altri avviene che il Primo Grado trova del Quarto uno stimolo continuo, un aiuto continuo a superare nella pazienza, a vincere nell’amore tutte le difficoltà che la vita nel mondo oppone a un esercizio di carità perfetta. Così il Quarto Grado troverà nel legame con gli altri Gradi uno stimolo continuo a ravvivare la propria vita cristiana.

Io ritengo infatti che sia vero che molto spesso la vita contemplativa nei conventi, nei monasteri, nelle abbazie sia mediocre proprio perché, per vivere una vita contemplativa vera nel monastero, ci vogliono delle anime eccezionali. Altrimenti la loro vita così monotona, uguale, appiattisce. Qualche volta nelle abbazie o nei monasteri troviamo delle persone che non vivono nemmeno la serietà di un impegno umano quale può viverlo una madre di famiglia, un padre di famiglia che si preoccupa per l’educazione dei figli, per il proprio lavoro, per tante cose. Essi vivono una vita mediocre. Pregano, sì, non dico che non preghino; però, Dio non è più una passione che li divora. San Giovanni della Croce, santa Teresa, san Bernardo erano grandissimi santi, nessuno lo nega, e anche santa Teresa di Lisieux e san Serafino di Sarov; ma in compenso, quante sono le anime che, vivendo la vita del monastero, praticamente non fanno altro che immiserire giorno per giorno, sempre di più! Ma perché? È inevitabile. Io non ne faccio una colpa a queste anime, faccio una colpa proprio alla struttura stessa.

Quando la comunità cristiana aveva una maggiore sensibilità per i valori contemplativi, allora anche ritirandosi un monaco o una monaca in un monastero, non era rotta l’unione con la Chiesa: la Chiesa si faceva presente perché i fedeli chiedevano preghiere, assediavano i monasteri, perché il monastero era sempre un faro di luce, un’oasi di pace… ma oggi non c’è più questa sensibilità, e allora che cosa avviene? Avviene che queste persone, entrando in monastero, dimenticano il mondo per ricordarsi soltanto delle loro piccole cose: la monaca che deve badare ai polli pensa solo alle malattie dei polli, al mangime per i polli, ecc. ecc.; un’altra penserà solo a ricamare le tovaglie, a farci dei bei disegnini… e tutto finisce lì. È una vita misera. Pensate quanto più grande sia il contenuto della vita di tanti che vivono la preoccupazione di mandare avanti la famiglia, come sia la loro una vita autenticamente più vera, più umana, e perciò autenticamente più piena!

Il legame col mondo è stimolo e alimento alla preghiera

Ora, ecco: il Quarto Grado, per me, perché deve vivere l’unione col Primo Grado? Perché in questa unione trova uno stimolo continuo al rinnovamento. Il bisogno che noi avvertiamo nella Chiesa di unione con gli altri dà veramente un nuovo contenuto anche alla nostra preghiera, anche al nostro impegno religioso, mentre altrimenti ci si appiattisce nella mediocrità. È quasi inevitabile, tranne le eccezioni delle grandi anime; ma rimangono eccezioni. Io conosco, nei monasteri, delle anime veramente regali; ma come sono poche in confronto con tante altre che ho conosciuto, che vivono di piccole gelosie, di pettegolezzi… di tante piccole cose che per loro possono veramente diventare ossessionanti, vivendo una vita così monotona e circoscritta.

L’unione con gli altri libera e stimola, dà un contenuto sempre nuovo anche alla vita di preghiera. Non per nulla i grandi contemplativi della Chiesa cattolica, anche se sono monaci, non hanno vissuto mai questa solitudine, questo puro silenzio. Si pensi, tanto per fare un esempio, a un san Bernardo, che si occupava di tutte le cose che non lo riguardavano: faceva il Papa e non era Papa, faceva il capo dei vescovi e non era vescovo, faceva il predicatore delle crociate e doveva essere invece colui che vive soltanto nel silenzio e nella preghiera… faceva tutto quello che non lo riguardava! È necessario, proprio per la nostra vita cristiana, che avvenga così, perché la carità non unisce soltanto a Dio, unisce a tutta la comunità cristiana.

Nella misura che la comunità cristiana perde senso per te, che non dice niente al tuo spirito, che non la senti vivente della tua vita, c’è il pericolo che nemmeno Dio sia presente. Allora non fai che girare intorno a te stesso, allora Dio diventa soltanto l’idolo di un certo narcisismo spirituale, non è altro che l’incarnazione del tuo io, di una tua vita che tu vagheggi e che è vuota. Dio non è mai separabile dagli uomini, una volta che Dio si è incarnato. Non puoi mai cercarlo al di là dell’Incarnazione del Verbo: è nel Verbo incarnato che si fa presente per te Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma nel Verbo incarnato non si fa presente soltanto l’uomo Gesù, si fa presente tutta l’umanità, che con Lui forma un unico corpo; cioè la carità divina veramente realizza l’unità, un’unità oltre la quale nulla vi è: né Dio né il mondo, né gli uomini né Cristo.

E l’unità la realizza anche la Comunità, precisamente attraverso i suoi quattro Gradi. Noi riconosciamo la validità di tutti questi stati, riconosciamo che in ogni stato di vita d’uomo deve rispondere alla santità a cui Dio lo chiama. È vero che ci sono laici religiosi e non religiosi, ma per noi tutti sono religiosi. Perché appunto è questo il problema: la distinzione nella Chiesa non si fa più, come si faceva prima, in base all’antico diritto canonico, in laici, religiosi e sacerdoti; nella Chiesa sono due le distinzioni che si possono fare, tutte e due fondamentali. Una è questa: laici e sacerdoti; l’altra è questa: religiosi e non religiosi. Ora, tanto i religiosi come i non religiosi possono essere nella gerarchia o fuori dalla gerarchia. Per noi, religiosi sono tutti e debbono essere tutti: per questo la Comunità abbraccia tutti gli stati, tutte le condizioni di vita, perché tutti possono essere religiosi. Cioè, tutti sono impegnati immediatamente, hic et nunc, senza rimandare, a raggiungere la perfezione della carità.

Ma siccome la carità d’altra parte è la realizzazione dell’unità, chiunque vive nel Primo Grado è veramente fratello di chi vive il Quarto Grado nella solitudine e nella preghiera. E il Quarto Grado è veramente fratello di chi vive nel Primo. Questo naturalmente non implica che i membri del Quarto Grado debbano andare gironzolando per il mondo! Certo, la struttura della Comunità esige che si rispettino certe forme di vita; però questo rispetto non deve essere una difesa che rompe l’unità; deve dare piuttosto alle anime la possibilità di realizzare la piena fedeltà a quella che è la vocazione propria di ciascuno e dare a ciascuna anima la capacità di vivere una vita piena, una vita che è veramente esercizio di carità, di carità che ci unisce a tutta la Chiesa, che ci unisce a Dio.

Cammino ascendente e discendente

Per ritornare a noi: come viviamo allora questa struttura della Comunità? Non vi è soltanto un cammino ascendente, vi è anche un cammino discendente; la scala di Giacobbe non è una scala per la quale gli angeli salgono a Dio soltanto, è anche una scala per la quale gli angeli scendono da Dio agli uomini. Ecco la Comunità. Dal Primo Grado al Quarto Grado è una continua ascensione, cioè è un continuo realizzare sempre di più quelle forme di vita nelle quali si impone in modo sempre più concreto la presenza di Dio, la manifestazione della dimensione verticale del Cristianesimo, quelle forme di vita in cui Dio si fa sempre più presente, in una preghiera sempre più consumante, in una lode sempre più pura, in una purezza di spirito sempre più piena.

Noi dobbiamo vedere la Comunità in questo cammino ascendente, che, dalla base di una vita umana che accetta tutte le condizioni e gli stati, sale lentamente attraverso i vari Gradi sino a una vita il cui contenuto è soltanto preghiera, silenzio abituale, solitudine. Non solitudine assoluta, non silenzio totale; però è un tendere sempre più alla vita che è il puro volgersi dell’anima a Dio.

Ma la Comunità dobbiamo vederla anche in senso inverso: se è la pensassimo soltanto così, non sarebbe più cristiana, perché sarebbe veramente il cammino neoplatonico: pia elevatio animae in Deum, un cammino verso Dio, soltanto verso Dio. No: la Comunità implica allo stesso tempo anche un andare verso gli altri. Le dimensioni della vita cristiana sono quelle della Croce: verticalità assoluta, ma anche orizzontalità totale. E allora la Comunità dobbiamo anche concepirla come movimento discendente: dal Quarto Grado attraverso gli altri Gradi la grazia di Dio si diffonde, fino ad inondare tutti. È la vita di preghiera del Quarto Grado, è questa unione con Dio che si deve fare propria anche dei Gradi inferiori, fino a divenire il contenuto della vita umana stessa.

Naturalmente nella via discendente è Dio che discende, mentre nell’ascensione è l’uomo che ascende; ma nella discesa dobbiamo renderci conto – ed è qui la difficoltà della santità per il Primo Grado – che chi vive nel Primo Grado deve vivere questa santità proprio nel portare nell’ambiente umano più vasto tutta la pienezza di Dio. Però è Dio che deve scendere. Nel Primo Grado noi viviamo la missione stessa del Figlio di Dio, che vuol far presente in mezzo agli uomini il Padre celeste, che vuol portare agli uomini la sua grazia divina: cammino di discesa. Ma l’uomo ora non discende più; l’uomo deve vivere sempre nel seno di Dio. È Dio che ora per te discende attraverso i vari Gradi, fino ad incontrarsi con tutti.

Pensate la meraviglia di quelli che vivono nella Comunità: da una figliola che vive nel Secondo Grado discende la grazia su tutti i suoi famigliari. È così! C’è un cammino di ascensione che dai membri non consacrati della famiglia, attraverso un membro consacrato, sale verso una vita di preghiera sempre più pura; e c’è un cammino di discesa, che dal membro consacrato discende e si diffonde su tutti gli altri: sui suoi famigliari, sulla Comunità, ma poi anche su tutti i cristiani, perché in fondo tutti i cristiani sono a noi legati.

Necessità di tutti i Gradi

La Comunità dunque è fatta di quattro Gradi, ma è vissuta così: Primo, Secondo, Terzo , Quarto, Terzo, Secondo, Primo. C’è un’ascesa e una discesa continua, o, per dirlo in altre parole, la Comunità deve vivere la diastole e la sistole proprie della divina Trinità: tutto si riunisce nell’Uno, tutto dall’Uno promana nei Tre. Tutto tende all’unità della vita contemplativa, tutta la vita contemplativa si dilata nella vita di tutta la Chiesa. Unità che poi diviene anche dilatazione universale, sì da abbracciare ogni cosa. Il respiro umano non è soltanto una inspirazione, è anche una espirazione; è questo il vero respiro umano ed è questa anche la vera vita cristiana: tutto un raccogliersi in Dio attraverso il Primo, Secondo, Terzo, Quarto Grado, perché in Dio poi tutto si estenda e si dilati fino ad abbracciare tutte le cose in una carità che nulla rifiuta, a cui tutto interessa.

[…] Allora, cammino di discesa: come hai portato tutto su, così su tutto ora ti effondi: da te nel Terzo, dal Terzo nel Secondo, dal Secondo nel Primo, dal Primo in tutta la Chiesa, da tutta la Chiesa in tutta l’umanità, da tutta l’umanità in tutte le costellazioni! Il tuo atto si deve dilatare nella misura stessa della creazione. Il nostro monastero non è né San Sergio e nemmeno la Fornace: è il seno del Padre. Ma da questa unità del Padre si discende poi, e la nostra casa diviene la creazione intera: vogliamo riempire tutta la creazione del nostro amore. È così che noi dobbiamo vivere la vita della Comunità.

E questo richiede che voi preghiate, continuamente preghiate (per la vostra salvezza, per la vostra santificazione) perché ci sia un Terzo Grado e un Quarto Grado, e maschile e femminile. Si deve arrivare a questo. Rendetevi conto che per voi stessi è la fine se non ci sarà veramente questa struttura: struttura che non riguarda soltanto la famiglia della Comunità: riguarda la vostra vita spirituale, perché voi non potete rispondere alla vostra vocazione vivendo soltanto nel Primo e nel Secondo Grado senza avere un legame col Terzo e col Quarto, senza cioè sentirvi sempre sollecitati a vivere sempre più intensamente la vostra vita divina in un legame con altre anime che possono viverla in condizioni più favorevoli. Così anche quelli del Quarto Grado, se non ci sono veramente un Primo, un Secondo e un Terzo Grado efficienti, non potranno vivere pienamente la loro vita, cioè vivranno probabilmente il pericolo di una vita mediocre, perché vivendo sempre soli, sempre in casa, che cosa faranno? Staranno, come diceva il beato Michele Pini , a grattarsi i piedi! Sarebbe un po’ poco, veramente! Ma questo pericolo c’è, perché, voi lo capite, non sempre la grazia di Dio ci soccorre: ci sono momenti, giornate, mesi di noia, di inutilità. Diceva perfino san Serafino di Sarov, che è uno dei più grandi contemplavi moderni, che certe volte non si può far altro che cercare di mangiare e di dormire: «Non uscir di camera, cerca di mangiare tutto quello che ti capita, oppure, meglio ancora, dormi, per non avere modo di pensare… ». È una cosa ottima, ma non per chi vive nella Comunità: per chi vive nella Comunità c’è sempre qualche cosa da fare per gli altri, c’è questa sollecitazione che dà modo anche a chi fa vita contemplativa di uscire dal tormento dell’inutilità, dal tormento della acedia, che è veramente la cosa più terribile, la tentazione più terribile della vita contemplativa pura. E non è soltanto una tentazione, è una crisi in cui la maggior parte delle anime soccombe, perché allora, in questa vita vuota, si dà importanza alle cose secondarie.

[…] Invece, quanto più facile è la vita contemplativa quando, attraverso una struttura come quella della Comunità, le anime anche del Quarto Grado possono essere sempre partecipi di una vita più piena, della vita di tutta la Chiesa, della vita di tante anime che pure vivono lo stesso impegno di santità, anche se lo vivono in altre condizioni.

Quando ha dato a me, per esempio, il contatto con anime come Jolanda Ciotti o Lea Greselin! In certe giornate in cui non riesco né a scrivere né a leggere e tutto mi sembra inutile e vuoto, il pensare a queste persone, l’avere un legame con loro, magari una lettera che mi giunge da loro… che folata di aria pura che entra nella mia vita! Non possiamo renderci conto dell’importanza che ha per noi il legame con altre anime che vivono problemi diversi, ma forse più reali dei nostri (perché vivendo la vita contemplativa i nostri problemi sul piano umano non sono più reali): entrando nella nostra vita i problemi di queste anime, ecco che noi siamo sollecitati non solo a pregare ma a vivere una vita più reale.

Non possiamo gingillarci con i nostri piccoli pensieri, con i nostri piccoli sentimenti! La nostra vita diviene veramente più completa, più reale, più viva, non può essere più sciupata nel nulla, nel vuoto.

Ogni Grado ha bisogno di tutti gli altri

Ecco perché il Quarto Grado non può vivere senza il Primo. Ma neanche il Primo senza il Quarto, il Terzo, Secondo. Senza contatto con persone veramente impegnate a una vita di maggiore unione con Dio attraverso la recita dell’Ufficio, la lettura biblica, i voti religiosi, quelle del Primo Grado possono ridursi ad essere persone che si riuniscono per scambiare due chiacchiere ogni settimana, e magari non dicono più neanche le quattro preghiere perché se ne dimenticano… Via via che si invecchia, anche l’incontrarsi per un rapporto umano può dare qualche gioia… ma è tutto qui. Invece l’incontro con persone del Secondo Grado, che sono veramente impegnate, darà loro il bisogno di vivere in un contatto maggiore con la Sacra Scrittura, un impegno maggiore di preghiera nell’Ufficio divino.

E così quelle del Secondo Grado, quando ci sarà veramente un Terzo Grado di anime impegnate sul serio nella vita comune, come si sentiranno maggiormente legate anche fra di loro! Perché è vero che vivono nella loro famiglia, ma sentono che hanno anche un’altra casa, a cui aspirano, sentono di vivere lì, anche se non ci stanno…

E un’altra cosa importante, che ho sempre detto ma che voglio ripetere, è questa: che quelli del Primo Grado si rendano conto che debbono essere santi. Non debbono sentirsi come un terz’ordine. Rendetevi conto che la cosa importante nella Comunità è la prima Consacrazione. Nella prima Consacrazione ci siamo dati a Dio totalmente, senza misure. Le misure sono date da Dio, il quale vi ha voluto nel matrimonio. Io non voglio certo che i mariti abbandonino le mogli, come il Beato Colombini ; voglio però che i mariti e le mogli, entrando nella Comunità, vogliano tutti e due veramente raggiungere la santità. E la santità implica la carità perfetta verso Dio, la carità perfetta verso gli altri. Non implica per sé la castità perfetta, l’obbedienza, la povertà: la castità, l’obbedienza, la povertà sono mezzi efficaci al raggiungimento del fine, e noi dobbiamo essere grati a Dio che ci mette in condizioni di potere, impegnandoci con questi mezzi, aver meno difficoltà a raggiungere la carità perfetta. Ma la carità non consiste in questi mezzi. Perciò anche il Primo Grado deve realizzare la santità.

La santità è l’impegno e il contenuto della vita di ciascuno che abbia fatto la Consacrazione. È certo che questa santità diviene più difficile nella misura che le condizioni in cui uno vive non favoriscono questa pura adesione a Dio, questa vita di abituare preghiera; e per questo il Terzo e Quarto Grado debbono vivere anche una intercessione continua per i propri fratelli che vivono la medesima vocazione in un ambiente meno adatto a questo impegno di santità. Così non vi è nessuna élite, non vi è nessun orgoglio nell’essere del Quarto Grado. Dio non chiede di meno a chi vive nel Primo, se chi vive nel Primo capisce davvero cosa vuol dire Consacrazione.
Alcune di queste figliole del Primo Grado sentono di essere defraudate di qualche cosa se non fanno i voti, vivendo magari nel matrimonio. Ma anche se fanno i voti nel matrimonio, non per questo entrano a far parte del Secondo Grado . Appartengono alla Comunità: la Comunità è tutto. Coloro che non vivono nel matrimonio, se si impegnano nella Comunità dovrebbero fare i voti, a meno che non abbiano dei motivi giusti per non farlo (io non voglio entrare nel segreto delle coscienze), perché chiunque ha fatto la Consacrazione si è impegnato alla santità, dunque si è impegnato ad usare anche di tutti questi mezzi che sono più efficaci al raggiungimento di questo scopo. Altrimenti i il Primo Grado diventa un terz’ordine, non è più un essere impegnati alla santità.

[…] Per poter l’obbedire a me bisogna che voi siate liberi nei confronti di altre persone che hanno un potere su voi (i genitori o il coniuge). Ma il fatto di non avere i voti non toglie nulla alle coniugate del Primo Grado; anzi, è bene che nel Primo Grado vi siano delle anime impegnate magari più di quelle del Secondo, perché l’impegno di santità è il medesimo. La santità è l’impegno comune per tutti.

Il contenuto della vita di chi ha fatto la Consacrazione nella Comunità è la perfezione della carità: in condizioni diverse, per tutti però si impone una vita totalmente di Dio e totalmente del prossimo: essere, come vi ho detto altre volte, sacrificio a Dio, sacramento agli altri. Offerta totale di tutto l’essere nostro al Signore in un puro atto di lode, di sacrificio, di offerta; un atto continuo di carità, nell’umiltà, nella semplicità della vita.

Importanza della preghiera di intercessione

Vi ho detto delle cose che sono già state dette e ridette, ma mi accorgo che spesso vengono fraintese. E anzi vorrei che quanto è stato detto oggi divenisse occasione per parlare di queste cose nei Gruppi e anche nelle Famiglie lontane, in modo che si abbiano idee chiare. Si deve capire bene che la Comunità è questa e non altra. È una famiglia in cui vari sono i Gradi, ma unico è lo spirito, unico l’impegno, unica la carità: carità che si esprime in una preghiera continua e anche in servizio di umiltà, di semplicità, di pace. Si è detto sempre che l’atto supremo in cui si realizza la nostra vocazione è la preghiera: preghiera di lode e preghiera di intercessione […]

Per il Terzo e Quarto Grado si impone una preghiera di intercessione continua per i fratelli. Chiunque viva una vita comune vive l’impegno di aver sempre presenti tutti i membri della Comunità attraverso la Preghiera litanica, che è obbligatoria per noi come l’Ufficio divino. Si intende che anche negli altri Gradi si è tenuti a pregare per i fratelli.
Come il Cristo, solidale con tutti i peccatori, vive nell’atto della sua preghiera la salvezza del mondo, così anche noi: nell’atto dell’offerta quotidiana a Dio della nostra vita, viviamo la salvezza di tutte le anime, perché tutte le anime sono legate a noi, ma massimamente quelle della Comunità.
Questo è sommamente necessario ed importante, su questo dovremmo continuamente meditare.

Per me è importantissima la preghiera di lode, ma, a differenza dei Benedettini, per noi è importantissima anche la preghiera di intercessione, perché noi siamo solidali con tutto il mondo. Secondo san Gregorio di Narek , il monaco è colui che si fa solidale con tutto il peccato del mondo: è l’assassino, il bestemmiatore più grande di tutto il mondo, ecc.: il monaco è colui che si carica di tutto il peccato umano, e dice a Dio che non vuol andare in paradiso se non ci va anche l’ultimo dei peccatori. E così anche santa Teresa di Lisieux. Chi ha vissuto veramente la vita contemplativa ha unito sempre l’atto supremo dell’amore che lo unisce a Dio all’atto supremo dell’amore che lo unisce agli uomini. Ma l’atto di amore che ci unisce agli uomini ci fa solidali con loro, e responsabili con loro di tutto il loro peccato. Perciò noi dobbiamo vivere questo impegno di propiziazione, di soddisfazione per il peccato di tutti. Noi siamo veramente il cuore dell’universo.
Ecco perché non possiamo vedere il Quarto Grado come evasione dal mondo: il contemplativo è il cuore del mondo, diviene veramente il centro dell’universo, su cui gravita tutto il peso. C’è una legge della gravitazione universale anche sul piano spirituale. È il contemplativo, è il santo su cui gravita il peso di tutto l’umano peccato.

Di qui il fatto che il contemplativo, invece di essere uno che si compiace di sé, si sente il più grande peccatore di tutti, perché è responsabile di tutti peccati. Come non può separarsi da Dio, così non può separarsi dall’ultimo peccatore. Egli è solidale con tutti. E non vi sembra che sia bello? E non vi sembra che sia questo che salva la genuinità della nostra vita di preghiera? Ché altrimenti la vita contemplativa diventa come una bevanda che ci inebria, ci dà il senso di camminare sulle nuvole, di non partecipare più alla miseria del mondo, di essere ormai sottratti a tutti i mali del mondo.

Verticalità e orizzontalità: non esiste la verticalità senza l’orizzontalità. Però non esiste neanche l’orizzontalità senza la verticalità, perché non ti apri all’amore degli altri che in quanto Dio vive in te, perché l’aprirsi all’amore degli altri indica il superamento di un egoismo che non si può realizzare che per la presenza di Dio nel cuore dell’uomo. Perciò non vi è amore del prossimo quando non vi è amore di Dio, così come non vi è amore di Dio là dove non vi è amore del prossimo.

SECONDA MEDITAZIONE: LA SPIRITUALITÀ DELLA COMUNITÀ

Quello che ci distingue non è soltanto la struttura ma anche la particolare spiritualità. Abbiamo sempre detto che vogliamo vivere per testimoniare il primato dei valori contemplativi. Questo è vero anche per coloro che vivono nel Primo Grado. Non è particolare a quelli che vivranno nel Quarto Grado: per tutti quelli che in forza della Consacrazione fanno parte della nostra Famiglia si impone di dover rendere testimonianza a questi valori.

Quando si dice che il carattere della nostra vita è piuttosto monastico, noi intendiamo in modo particolarissimo riferirci agli altri tipi di vita religiosa che hanno avuto origine nella Chiesa; e vogliamo distinguerci da questi istituti nel senso che mentre in questi istituti ha un valore eminente anche l’apostolato, per noi l’unico fine della vita rimane sempre quello della perfezione della carità, quello di tendere di per sé alla santità; cioè, il primato dei valori contemplativi. Non è tanto un servizio, un ministero quello che per noi si impone, quanto quello di rendere una testimonianza. Noi ci distinguiamo per questo da tutti quegli istituti di vita religiosa che in parte mutuano precisamente dal sacerdozio una missione che essi vogliono esplicare nella Chiesa. Noi, cioè, vogliamo essere più fedeli a quella distinzione che si impone oggi, specialmente dopo il Concilio, distinzione che non oppone religiosi a sacerdoti, ma religiosi a non religiosi; cioè lo sviluppo della nostra vocazione non è in ordine a un ministero della Chiesa, ad un ufficio che dobbiamo assolvere, a un qualunque fine operativo, ma in ordine espressamente soltanto all’adempimento di un obbligo di perfezione che è proprio di tutti i cristiani, ma che è soltanto remoto per i non religiosi e diviene invece prossimo per i religiosi.

È questo che ci distingue da tutti gli altri cristiani. Ecco perché noi abbiamo lo stesso nome di quello che hanno tutti i cristiani. Quando gli altri dicono che anche loro si sentono figli di Dio e che anche la Chiesa è la comunità dei figli di Dio, io non ho nulla da eccepire; infatti non vogliamo in nessuna cosa essere diversi dal semplice cristiano, come il monaco non è diverso dal semplice cristiano che per questo motivo: che il semplice cristiano vive, sì, un obbligo di santità, ma per lui questo obbligo rimane remoto, mentre per il monaco è un obbligo prossimo. Il semplice cristiano, per rimanere cristiano, basta che non faccia nulla per mettere in pericolo la sua vita di grazia, mentre il monaco, se non tende positivamente alla perfezione, già per questo motivo è in peccato, come diceva sant’Alfonso de’ Liguori.

È quello che ci distingue: che non volendo ordinarci oggi e qui direttamente alla perfezione della carità, noi già veniamo meno a un proposito fatto, a un impegno che ci siamo assunti nei confronti di Dio e della Chiesa, perché nei confronti di Dio e della Chiesa noi ci siamo impegnati a vivere la perfezione della carità. Sappiamo benissimo che siamo dei cristiani imperfetti, più imperfetti forse di tanti cristiani non impegnati; però questo ci distingue: che noi siamo impegnati. Ci siamo impegnati di fronte alla Chiesa e in forza di questo impegno non possiamo sottrarci a una volontà che insiste in tutti i nostri atti, in tutta la nostra vita, a volerci mettere nel cammino di una perfezione che ci deve portare alla carità perfetta.

Quello che ci distingue dagli altri dunque non è il lavoro, non è il particolare ministero, non è il particolare fine, un fine specifico che ci impegni verso i malati o verso i giovani o verso le missioni o le opere parrocchiali: nulla di tutto questo. Quello che ci distingue è soltanto il fatto di un obbligo che per noi è divenuto immediato, prossimo, ed è rimasto invece per tutti gli altri cristiani un obbligo remoto. Tutti siamo chiamati ad essere santi, ma il semplice cristiano basta che sia santo in paradiso, invece il religioso deve anticipare il paradiso quaggiù; di fatto la vita religiosa è un’anticipazione della vita celeste, è una testimonianza che il Regno di Dio è già presente in questo mondo; e noi dobbiamo darla.

Per questo vi dicevo stamani che il sacerdote per sé, essenzialmente, secondo la sua natura, non è tanto chiamato ad anticipare la vita celeste nella santità, quando è chiamato – direttamente, per sé – a compiere certi atti di ministero, perché senza questi atti non continuerebbe la Chiesa: l’esercizio del culto, l’amministrazione dei sacramenti, la parola di Dio. La Chiesa poi continua l’esercizio di un ministero, che continua la stessa missione del Cristo in favore degli uomini, ed è questo che distingue i sacerdoti dai laici, non è la maggiore o minore santità, anche se – come diceva l’antico diritto canonico, che ormai non vale più, ma lo diceva e giustamente lo diceva – il sacerdote dovrebbe avere una santità relativamente più alta di quella dei laici; però non è dell’essenza del sacerdozio come tale, la santità. È per il benessere del sacerdote, perché, nella misura che non è santo, praticamente la sua vita contrasta con quello che deve fare in quanto sacerdote di Dio; ma tanto il laico che il sacerdote non sono impegnati alla santità, mentre il religioso deve fare presente già ora e qui lo stato escatologico della Chiesa, la vita del cielo.

Ecco di qui la necessità della castità per il religioso. È chiaro che tutti i cristiani, in quanto debbono tendere alla perfezione, debbono esercitare non i voti ma i consigli evangelici; e la castità non è propria soltanto di chi ha fatto i voti, come non lo è l’obbedienza, come non lo è la povertà. Tutta la vita cristiana, in quanto tende alla perfezione della carità, è sempre un esercizio di queste virtù, le quali liberano l’anima da tutti i legami alla terra e la ordinano al cielo. Ma il religioso è chiamato, molto più di qualsiasi altro, a vivere i consigli evangelici come condizione di un distacco effettivo da questo mondo di quaggiù per essere nel mondo di lassù, per essere veramente l’anticipatore della vita celeste, per essere testimone del Regno di Dio sulla terra. Ora, nel mondo futuro non ci sposeremo né saremo sposati. Ecco perché il religioso non sposa: perché è uno che fa presente il Regno di Dio sulla terra. Ecco chi è religioso.

Il religioso deve vivere già ora la vita del cielo

Il religioso perciò non vive dei fini particolari: vive il fine che è proprio di tutti i cristiani; soltanto, il cristiano può andare anche alla stracca: «Starò un po’ più il purgatorio, basta che prima o poi arrivi in paradiso!» Così dice il semplice cristiano. Invece il religioso, se non ci arriva ora non ci arriva più. Perché a questo ci siamo impegnati noi: o si vive già ora in paradiso o non ci saremo mai. Il semplice cristiano può rimandare anche a domani, ma io non posso passare attraverso il purgatorio. Non solo, ma non posso vivere nemmeno oggi su questa terra: già oggi, vivendo qui, sono nel seno del Padre, debbo vivere già la vita del cielo. Ecco quello che è proprio del religioso come tale e perciò di chiunque abbia fatto la Consacrazione nella Comunità.

Si noti bene: è questo che ci distingue. Non è un qualunque servizio, non è un fine specifico: è precisamente il fine di tutti i cristiani, che è la santità. Ma la santità che non è più per noi un obbligo remoto: è obbligo prossimo. Ora e qui si impone a me di essere santo, ora e qui si impone per me di vivere nel cielo, ora e qui si impone per me di essere testimone del Regno di Dio. E tanto più questo è necessario per noi della Comunità, nei confronti degli ordini monastici: che, dovendo vivere nel mondo, dobbiamo dare al mondo, che oggi non conosce più Dio, questa testimonianza: che Dio è in mezzo al mondo, perché ci siamo noi.

Questa dovrebbe essere la funzione della Comunità: far presente fra gli uomini Dio. Ma se non facciamo questo non facciamo nulla: tutta la nostra vita è menzogna. Perché, vedete, gli ordini religiosi che hanno un fine specifico proprio possono credere di rispondere alla loro vocazione per il fatto che vanno dai malati o che hanno dei collegi; noi invece non abbiamo un fine particolare, per ridurci soltanto al fine primario che è proprio della vita religiosa come tale: quello dell’impegno prossimo di perfezione. O siamo santi o siamo menzogna; o siamo santi o andremo certamente all’inferno. Non si può mica giocare con Nostro Signore! Noi dobbiamo essere la presenza stessa di Dio per gli uomini di oggi. Il mondo divino, il paradiso, per noi si anticipa quaggiù sulla terra.

La Chiesa, di fatto, deve manifestare la sua paradossale condizione: quella di vivere in viaggio, peregrinando verso la patria, e di aver raggiunto già la meta. È peregrinante come popolo di Dio, ma noi non siamo in cammino, siamo fermi. La Chiesa in noi manifesta il suo carattere non più peregrinante ma di immutabile riposo nell’unione col Cristo. La Chiesa vive una condizione paradossale, perché se fosse soltanto peregrinante sarebbe ancora nell’Antico Testamento; invece quello che distingue la vita cristiana è precisamente che «la fine si accompagna al viaggio», secondo l’espressione meravigliosa del Newman . Il termine non è al di là del mio cammino; è nello stesso atto che vivo, che io raggiungo il termine, perché sempre raggiungo Cristo, e oltre il Cristo non c’è nulla.

Ecco la testimonianza che dà la Comunità, o piuttosto tutta la vita religiosa, ma particolarmente noi, perché noi ci siamo liberati da tutte le varie illusioni di poter vivere una vita religiosa impegnandoci nell’azione. Non è tanto l’azione che ci distingue, quanto l’essere. Quello che distingue il sacerdote è l’azione, il ministero, ma quello che distingue il religioso è l’essere, è la carità perfetta. I ministeri finiranno quando finirà il pellegrinaggio, ma la vita religiosa no, di certo, né per noi né per i preti, e i nemmeno per i semplici cristiani; e allora ciascuno sarà quello che è. Cioè, non dovrà fare né una cosa né l’altra, vivrà eternamente quella misura di carità che avrà raggiunto. Ma noi dobbiamo averla già raggiunta quaggiù, la perfezione della carità.

Essere testimoni della presenza di Dio tra gli uomini

Ecco, io vi chiedo questo: di rendervi conto che per gli uomini noi siamo la testimonianza di una presenza, il segno di una presenza, la visione del regno di Dio; noi dobbiamo dare ad altri il senso che Dio c’è perché ci siamo noi. Ecco il carattere della vita monastica che è propria della Comunità. Come vedete, poco ci distingue dagli altri cristiani, ma una cosa ci distingue, ed è significativa e massima: che gli altri non debbono mettere in pericolo il raggiungimento di questa perfezione, che potranno raggiungere però soltanto attraverso anche dei secoli; noi invece non possiamo rimandarla a domani, perché non viviamo più in cammino: la nostra vita ci impone hic et nunc di vivere in unione col Cristo.

La nostra attività suprema, come si diceva stamani, è l’articolo delle Costituzioni sulla preghiera: nella preghiera che cosa viviamo noi se non l’unione col Cristo? E c’è forse qualche cosa di più dell’unione con Cristo? No. Il vivere la nostra unione con Dio dunque ci stabilisce per sempre nella meta, nel fine, nel raggiungimento del fine. Nella misura che la preghiera è l’espressione stessa della nostra vita noi viviamo il termine della vita cristiana.
Ma la preghiera è insieme espressione di carità perfetta verso Dio e di carità perfetta verso gli uomini: intercessione universale.

Vedete dunque com’è semplice? Non facciamo difficile quello che è semplice! Non dico che la semplicità di questa visione non ci impegni in un modo straordinario, perché la santità per noi è talmente l’unica ragione della nostra esistenza che, se non lo siamo, noi manchiamo e verso noi stessi e verso la Chiesa e verso Dio, perché la nostra Consacrazione ci impegna immediatamente a questa perfezione di carità. Così, a coloro che ci dicono: «Ma in fondo, Comunità dei figli di Dio è tutta la Chiesa! Anche noi siamo figli di Dio!»

rispondiamo «Certamente!». Infatti quello che ci distingue è una cosa semplicissima: che, essendo figli, noi vogliamo esserlo. Qual è il motto della Comunità? “Ut sitis filii Patris Vestri”. È il passaggio cioè dall’ontologia al piano psicologico e morale. È vero che in tutti noi c’è, per il fatto che siamo figli di Dio, una esigenza a vivere la vita del Padre; in noi però questa esigenza non è rimandata a domani. Essendo figli vogliamo vivere come figli, e consapevolmente e volontariamente accettiamo questa nostra nuova natura, questa nostra nuova dignità, questa nostra unione col Padre per vivere esattamente la sua stessa perfezione divina: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli» [Mt 5, 48].

Noi accettiamo volontariamente e coscientemente di vivere questo. Questo ci distingue. Tutti figli, ma il semplice cristiano è come un bambino appena nato: è già uomo, ma non sa ancora vivere come un uomo. I semplici cristiani hanno ricevuto di essere figli di Dio, ma vivono come figli di Dio? Vivono la santità, la carità perfetta che è propria di Dio? Non ancora: sono dei bambini che sono ancora portati in braccio dalla mamma (dalla Chiesa), ma dormono tutto il giorno, non possono vivere ancora come perfetti cristiani. Tu no: tu sei religioso? Tu devi vivere già come figlio di Dio. In te deve risplendere tutta la vita del Padre, tutta la pienezza dell’amore di Dio. La tua vita è la vita stessa del Padre. Tu non puoi fare a meno di essere santo.

Tutti noi che apparteniamo alla Comunità dovremmo essere in condizione di essere subito canonizzati appena morti! In forza dell’impegno che ci siamo assunti nella Consacrazione religiosa, ci siamo impegnati – e certamente lo Spirito Santo, che ci ha chiamato a fare questa Consacrazione, ce ne dà il potere – a vivere come figli di Dio, a vivere cioè la santità stessa del Padre. Per noi vivere vuol dire essere santi: non vuol dire vivere una vita soltanto umana, vuol dire vivere la vita stessa di Dio, in forza della Consacrazione. Per noi non si impone di far tante cose: si impone però di essere santi, e santi sul serio!

Se la vita monastica nella concezione comune della Chiesa implica certe difese di solitudine, di silenzio, di abito, ecc., la Comunità invece non vuole più queste difese. In fondo, anche il Terzo e il Quarto Grado, nei confronti degli ordini contemplativi, avranno sempre minori difese: si esigerà sempre da loro un più facile rapporto con la Chiesa e col mondo. Perché? Perché questo è quello che ci distingue. Ma perché tutto questo? Perché in fondo la testimonianza che dà la vita monastica al mondo oggi è resa in gran parte inefficace, perché il mondo dice: «Vuoi andartene in monastero? Vacci pure: mi dimentico di te, e tu dimenticati di me!». Cioè si compie una rottura che non è né a beneficio del monaco né a beneficio del mondo. La vita monastica oggi ritorna come era in origine, come era per san Giovanni Battista e tanto più per Nostro Signore e per i dodici apostoli, i quali non sono soltanto apostoli, cioè vescovi, ma sono anche religiosi. Anche Nostro Signore non è soltanto sacerdote: prima di essere sacerdote è Figlio di Dio. Ebbene, la vita cristiana vissuta come l’ha vissuta Nostro Signore, ci dice che si può vivere la vita monastica, cioè una vita religiosa, di consacrazione totale a Dio, pur vivendo senza le difese della solitudine e del silenzio.

Certo, però, che anche Nostro Signore ci insegna che si ha bisogno di preghiera e di silenzio: si raccoglie sul monte, si allontana dalla moltitudine, cerca di mettere fra sé e la moltitudine un certo distacco (si allontana nella barca e parla dal lago alla folla sulla riva), tuttavia si deve riconoscere che nei confronti della setta di Qumran la vita cristiana delle origini non ha queste difese: non le ha né in Cristo e nemmeno nella vita religiosa propria delle prime comunità cristiane.

Siamo tornati ai tempi del Primo Cristianesimo: non c’è più un mondo cristiano

I monaci nascono quando tutto il mondo si sente cristiano: allora lo Spirito Santo suscita il movimento religioso di evasione da questo mondo che, essendo tutto cristiano, è ritornato tutto pagano; e si fa riconoscere a questo mondo, che crede di essere cristiano soltanto perché gli si dà un po’ di vernice sopra, che c’è una esigenza di distacco, di superamento, di trascendenza della condizione puramente umana che esige da molte di queste anime la rottura con il mondo.

Ma oggi vediamo che la condizione dei cristiani non è più quella dei tempi di Costantino: non c’è più un mondo cristiano, ci sono i cristiani. E la condizione della Chiesa è tornata a essere la stessa che ai tempi del primo Cristianesimo: condizione in cui tutti i cristiani sono mescolati con il mondo non cristiano: fanno parte di una società e di uno Stato che non sono più confessionali. E come ai primi tempi del Cristianesimo la vita religiosa esigeva che si vivesse un’anticipazione della vita celeste nella verginità, per esempio, o nel martirio, pur vivendo in mezzo ai fratelli, così la vita religiosa suppone oggi una testimonianza di vita escatologica – di anticipazione cioè della vita celeste – pur vivendo in mezzo ai fratelli. Ciascuno di noi vive in mezzo agli uomini per far presente il mondo celeste. Ecco perché nel Terzo e Quarto Grado la solitudine non sarà mai completa: perché anche lì ci si deve sentire legati al mondo. Nella nostra carità non possiamo separarci da alcuno; noi ci sentiamo impegnati a vivere per ciascuna anima, non tanto per un compito di ministero, quanto per essere per ciascuno una testimonianza viva di Dio: non attraverso le parole, non attraverso il bene che facciamo loro, ma attraverso la nostra presenza, perché la nostra presenza deve richiamarli a Dio.
Voi vedete come sia necessario questo, oggi. Fino ad oggi, il sacerdozio stesso nella Chiesa aveva un carattere religioso, prima di tutto perché c’è il celibato e poi a causa della veste. La veste intanto se n’è andata: sono ormai pochi anche quelli che portano il clergyman. E vedrete che fra pochi anni anche la legislazione canonica che impone il celibato sarà abolita. A me dispiace molto, ma ci si arriva. Così anche il sacerdozio non sarà più religioso. Allora chi testimonierà per Iddio? Ecco: i religiosi siamo noi.

Il far parte della Comunità non implica nessun cambiamento esterno nella nostra vita, non implica per noi il far qualche cosa di nuovo: implica per noi l’essere qualche cosa di nuovo: essere la lode di Dio, il Regno di Dio sopra la terra. Per noi si impone l’essere questi testimoni di una presenza divina, tanto più in quanto il sacerdozio non sarà più questo segno. I preti lavoreranno come gli altri, non vogliono avere nulla di diverso dagli altri, ecc., ma non per questo si sentono impegnati a vivere una maggiore santità. Vogliono andare nelle fabbriche, vogliono prendere moglie… non è certo questo il cammino per vivere la vita escatologica, è invece un ridursi proprio alla vita secolare. Continueranno il loro ministero, ma in una vita secolarizzata. Questo almeno sembra il cammino che il clero vuol fare. Ed è anche in questo che si vede la provvidenzialità del nostro movimento. Siamo tre gatti, nati oggi, non pretendiamo di essere noi soli a dare questa testimonianza, ma di fatto questa nostra istituzione, venuta oggi, risponde ad una secolarizzazione progressiva che oggi si compie.

Se la vita religiosa rimane sempre più estranea al mondo, noi la viviamo nel mondo. Non soltanto noi, certo; ci sono i Piccoli Fratelli, le Piccole Sorelle, ci sono i Focolarini, che certamente sono un movimento molto più imponente del nostro, anche per il numero; però fra tutti questi movimenti c’è anche il nostro, che, se vogliamo essere giusti, ci sembra che abbia veduto più chiaramente la situazione della Chiesa di oggi e voglia rispondere in modo più diretto alle esigenze del mondo cristiano di oggi: l’escatologia, la presenza del Regno di Dio attraverso l’uomo religioso, la santità, il primato dell’essere sul fare.

Il nostro “fare” è, come per il monachesimo antico, soltanto l’esercizio delle virtù. Per il monachesimo antico infatti la vita attiva non era l’assistere i malati, i poveri, ecc.: era l’esercizio delle virtù; e se si impone anche per noi oggi la vita attiva, essa è soltanto l’esercizio delle virtù; ma quest’esercizio delle virtù è in ordine a una vita di preghiera che ci unisce sia a Dio che a tutto il mondo. Nella preghiera si esprime esattamente, nel modo più perfetto, la nostra medesima vita.

TERZA MEDITAZIONE - CHE COSA CI DISTINGUE DAGLI ALTRI MOVIMENTI?

Sarebbe importante ora vedete più attentamente che cosa ci distingue degli altri movimenti. Intanto mi sembra questo (una cosa che può parere negativa ed è invece un elemento assai positivo): il fatto che la vita religiosa non è, nella Comunità, alle dipendenze di un fatto giuridico. Che la Chiesa ci riconosca o meno non importa granché. La cosa importante è renderci conto che la vita religiosa è un fatto di ordine carismatico. La Chiesa ci riconoscerà, se vuole, e ci dovrà riconoscere se la Comunità sarà viva, ma a me non importa questo, importa che ci sia una vita religiosa. E la cosa importante è precisamente questo: che, proprio siccome la vita religiosa non è di per sé legata all’istituzione giuridica, la Comunità si rivolga a tutti, e tutti voglia impegnare alla perfezione della carità.

Come si diceva stamani, nella Comunità quello che realizza una consacrazione a Dio non sono né i voti, né tanto meno la vita comune, ma la prima Consacrazione. Nella prima Consacrazione ci si impegna a tendere alla perfezione cristiana. E questo implica per noi l’originalità di fare a meno di qualsiasi mezzo particolare; così come la Comunità esclude di per sé dei fini specifici, così esclude dei mezzi particolare alla realizzazione di una nostra santità. Noi non vogliamo essere né come gli uni né come gli altri: vogliamo essere semplicemente dei cristiani. Pertanto non si esclude né il vivere come deputati al Parlamento, né il vivere come contadini nei campi; non si esclude nessuna condizione, nessuno stato di vita, nessuna età.

Ma si vuole che in ogni condizione o stato di vita l’uomo si impegni realmente a questa perfezione, che essenzialmente consiste nella carità: in una carità che per noi però (questa è la cosa importante) ha una sola espressione fondamentale – non dico che sia l’unica, ma è l’espressione fondamentale della nostra carità – la preghiera.

Impegno fondamentale: la preghiera

Non tutti possono sempre far tutto per gli altri, né vivere la loro vita, né essere solidali con loro nel lavoro; tutti però possono assumere il peso degli altri in quella preghiera di intercessione di cui si parlava stamani. Questo per quanto riguarda l’amore del prossimo.

Per quanto riguarda l’unione con Dio, è sempre la preghiera che realizza la nostra unità. Pertanto l’espressione fondamentale della nostra vita in quanto anime consacrate a Dio rimane sempre la preghiera. Preghiera che per noi è un ascoltare Iddio attraverso la Sacra Scrittura e un parlare a Dio nella preghiera liturgica. Anche qui nulla di proprio. Quello che è originale è il non aver nulla di proprio, ma offrire a tutte le anime di vivere una vita essenzialmente religiosa, di vivere un impegno non remoto ma prossimo di tendere alla perfezione, ovunque la volontà divina ha posto ciascuno.

Mi sembra che tutto questo sia molto semplice. Noi infatti non teniamo ad avere un’originalità che ci faccia setta nella Chiesa, che ci escluda da qualche cosa che appartenga alla Chiesa o che ci faccia diversi dai nostri fratelli.
E troppo vago quello a cui ci impegniamo? Non è vago, perché di fatto, se il tuo impegno di santità è un impegno reale, deve esserci da parte tua l’esigenza di un’applicazione di tutte le tue potenze a una ricerca continua di Dio, a una ricerca di unione con Lui, e anche a sentirti sempre più solidale con i fratelli nella preghiera per loro. È la preghiera che rimane fondamentale, anche se non si esclude nessun altro mezzo.

E in questa concezione di una comunità che ha il minimo di strutturazione giuridica anche se importa i quattro Gradi, noi intendiamo precisamente non riconoscere nessuna élite nella vita contemplativa e non vedere nessuna diminuzione nel puro stato secolare. Quello che ci distingue è precisamente questo. Per noi chi vive il Primo Grado e chi vive nel Quarto vive la stessa vita, il medesimo impegno. Naturalmente questo impegno si vive in condizioni diverse, perciò, pur essendo fondamentali per tutti la Sacra Scrittura e la preghiera liturgica, per un’anima che è sottratta a tutti i legami terreni per vivere l’unione con Dio, la Sacra Scrittura diviene l’unico studio, l’unico alimento. Ma non è detto che chi vive del Primo Grado viva una vita meno intensamente cristiana, perché dovrà vivere nell’ascolto della parola di Dio anche un impegno di servizio al prossimo, di essere a contatto con i fratelli, di portare questo impegno di attenzione a Dio anche in ambienti meno favorevoli.

Rimane che il mezzo fondamentale è lo stesso, l’esperienza è fondamentalmente la stessa, la testimonianza è essenzialmente la stessa; perché anche chi vive nel Primo Grado non deve dare una testimonianza essenzialmente di povertà, anche se si impone la povertà; non deve essere questo quello che ci distingue: quello che ci distingue è la preghiera. Se noi vogliamo insistere sulla povertà, si va a finire in una concezione di vita religiosa come quella dei Piccoli Fratelli, i quali necessariamente devono escludere, anche per i loro istituti secolari, ogni forma di vita in cui si deve esercitare il potere, come può capitare a certi cristiani di dover fare (potere economico, potere politico, ecc.). Io non voglio escludere dalla Comunità nessuno; escludo soltanto coloro che non vogliono vivere un impegno reale di perfezione cristiana attraverso una preghiera continua e attraverso un ascolto della parola divina.

Quello che è essenziale per noi è il fatto che, affermando il primato dei valori contemplativi, noi possiamo vedere nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, dei mezzi efficaci al conseguimento di questa vita contemplativa, ma dobbiamo anche renderci conto che la vita contemplativa trascende questi mezzi ed è essenzialmente, invece, unione con Dio e unione fraterna. Così un membro della Comunità non dovrà per forza dedicarsi a un lavoro manuale, come i Piccoli Fratelli: potrà fare benissimo il professore di università o il deputato. La cosa importante è che continui a pregare e che senta che, ovunque si trovi, il primo suo dovere è di vivere l’unione con Dio nella preghiera e della lettura della Sacra Scrittura e che viva veramente la ricerca continua del Signore anche attraverso il servizio che deve rendere agli uomini.

Il Primo Grado

Quello che ci distingue è precisamente il rifiuto di ogni fine specifico e il fatto che noi, in quanto Comunità, aderiamo semplicemente ai mezzi essenziali della vita cristiana. Non vogliamo altro che realizzare la vocazione propria di ogni cristiano, ma quello che ci distingue è il volerlo, è l’essere consapevoli di questa nostra vocazione e voleva viverla pienamente. Questo per quanto riguarda il Primo Grado.

Il Secondo Grado

Per il Secondo Grado è lo stesso: c’è soltanto una maggiore disponibilità delle anime all’impegno di questa vita di orazione, sicché queste anime possono fare i voti, i quali sono mezzi particolarmente efficaci per vivere questa vita evangelica. I vostri voti religiosi dunque non v’impegnano a vivere immediatamente un certo stile di vita nella povertà o nell’obbedienza: vi impegnano, attraverso l’obbedienza e la povertà, a vivere una certa vita di preghiera, mentre il Primo Grado dovrà vivere questa vita di preghiera senza avere l’aiuto di questi mezzi.

Perché questi voti sono mezzi particolarmente efficaci? Perché lasciano all’anima una disponibilità maggiore nei confronti di altri doveri umani che renderebbero più difficile l’applicazione ad una continua preghiera, a una ricerca costante di Dio; e questa disponibilità si raggiunge attraverso un distacco sia dai beni, sia da affetti sensibili, sia in una docilità maggiore ai superiori.

Il Terzo Grado

Per quanto riguarda il Terzo Grado, quello che impegna di più non è il lavoro specifico, perché noi dobbiamo inserirci nel lavoro umano. Non sarà mai il superiore religioso a dare un compito, tranne quei compiti che sono necessari per la vita della Comunità stessa. Per ora, finché siamo in pochi, nel Terzo Grado c’è da fare per tutti per la Comunità, ma domani, quando ci sarà un Terzo Grado più numeroso, ciascuno si inserirà nel lavoro umano secondo le sue doti particolari, naturalmente nell’obbedienza; ma non sarò mai io ad assegnare il lavoro, a meno che l’anima non me lo chieda, perché devo rispettare la vocazione naturale di ciascuno.

Quello che distinguerà il Terzo Grado sarà un esercizio dei voti religiosi ancora più efficace per una vita di maggiore preghiera: non solo la povertà riguardo all’uso delle cose, ma anche riguardo alla proprietà. Così pure riguardo all’obbedienza: sarà un’obbedienza a cui praticamente non si sfugge mai, perché ciascuno deve rispettare il regolamento della casa di vita comune. E c’è anche un esercizio maggiore della carità fraterna, dovendo vivere insieme ad altri, che hanno la tua stessa vocazione ma che non hai scelto tu: è Dio che li ha scelti per te.

Il Quarto Grado

Quanto al Quarto Grado, c’è una vita di totale disponibilità alla preghiera. Di per sé la vita del Quarto Grado dovrebbe lasciare tutto il tempo alla preghiera: a una preghiera che non è sempre attuale, ma tutto è ordinato a far sì che la preghiera divenga veramente il centro e il cuore della vita. In che senso? In questo senso: si potrà anche studiare, ma lo studio sarà sempre di discipline religiose: teologia, patristica, e soprattutto Sacra Scrittura, in modo che la vita di orazione si alimenti continuamente dallo studio. E naturalmente ci sono anche quei piccoli doveri che impone la vita comune: cioè bisognerà pure spazzare, far da mangiare, ecc.; ma, se tutti questi sono doveri che non si possono mai escludere, la vita deve avere come unico contenuto la preghiera, sia direttamente, sia indirettamente attraverso lo studio.

La vita del Quarto Grado è ordinata alla preghiera, perciò deve esserci una relativa solitudine: non assoluta solitudine, perché allora non sarebbe testimonianza né per il mondo né per la Comunità, ma una relativa solitudine sì, perché per la preghiera c’è bisogno di una certa quiete, di un certo silenzio, e questo silenzio deve essere mantenuto. Anche il silenzio non sarà totale, non ci sarà clausura, perché deve essere sempre salvata la carità; ma voglio però che una certa clausura ci sia, quella clausura che si impone alla preghiera. Se tu vivi di preghiera, che vai a fare fuori? Una passeggiata nel bosco si può conciliare con la preghiera, ma una passeggiata in città no. Deve esserci nel Quarto Grado una vita tale che implichi il minimo di distrazione: niente altro. Altrimenti la clausura diventa un distintivo di vita religiosa, che però non assicura affatto che al di là la vita religiosa ci sia. Quello che importa è che si realizzi una certa stabilità dell’anima in un certo luogo, perché questo favorisce la preghiera. E ci debbono essere delle ragioni particolari perché le persone possano uscire.

Io però non accetto che un’anima debba vivere segregata dal mondo, né in un continuo silenzio. La comunione fraterna rimane essenziale alla perfezione della carità, e la preghiera non implica affatto un continuo silenzio. Altrimenti il mezzo prende il posto del fine, e allora questi mezzi stessi risultano negativi nei confronti della vita religiosa. La vita religiosa stessa si impoverisce, non ha più stimoli interiori, non si arricchisce della comunione vera con gli altri.
Anche il Quarto Grado deve vivere la vita della Comunità, e perciò in certi incontri comuni anche quelli del Quarto Grado dovranno essere presenti, se non altro per creare l’atmosfera di preghiera. Perché se queste anime vivono una vita di preghiera, necessariamente sanno creare un’atmosfera di preghiera anche per gli altri.

Anche nel Quarto Grado, l’espressione della nostra vita di preghiera sarà sempre in primo luogo la Sacra Scrittura e poi la vita liturgica, con la preghiera di intercessione, cioè la Preghiera litanica o altre preghiere che implicano veramente una coscienza viva della nostra solidarietà col mondo del peccato. Per questo, oltre a san Gregorio di Narek, come mi dicevo stamani, una delle nostre sante è santa Teresa di Lisieux.

 

I nostri libri

Come sapete, i nostri libri fondamentali rimangono questi: sant’Ignazio d’Antiochia; la Regola di san Benedetto; la Prima Regola di san Francesco d’Assisi e il suo Testamento; san Giovanni della Croce (le Massime e gli Avvisi), santa Teresa di Lisieux (soprattutto i Novissima Verba) e infine il Direttorio di Carlo de Foucauld ).

Per me una delle sante più grandi rimane Teresa di Lisieux, per il fatto della latitudine del suo amore; lei stessa ha pregato il Signore di mandare anche lei nell’inferno o di salvare tutti con lei. E sembra che Nostro Signore l’abbia ascoltata. Questo noi dobbiamo sentire; perché se la carità del prossimo è veramente il segno della nostra carità verso Dio, noi siamo impegnati nella preghiera a vivere la carità. La nostra preghiera deve avere come contenuto primo la lode divina, ma anche l’intercessione universale e il senso di una solidarietà universale verso i peccatori. Figli di Dio, noi dobbiamo vivere veramente il mistero del Cristo: del Cristo Redentore, di un Cristo dal quale dipende la stabilità di tutti gli uomini perché di tutti Egli si è addossato il peccato.

Quello che vogliamo evitare nella Comunità è il senso della élite: il Quarto Grado è uguale al Primo Grado, non c’è nessuna differenza per quanto riguarda l’impegno religioso; l’impegno è identico ed è la carità, la vita divina, la vita del Figlio di Dio che vive nella unione col Padre e con tutte le anime; e questo precisamente come ha vissuto il Signore, senza difese, perché noi non ci vogliamo uniformare a nessun altro modello di vita: Gesù nel suo rapporto col Padre, nel suo rapporto con gli uomini. Vivere la vita umana. Per questo la Comunità non sarebbe la Comunità senza il Primo Grado. E il Primo Grado non deve assolutamente esser considerato una specie di Terzo ordine: chiunque faccia la Consacrazione nella Comunità si assume l’impegno di santità, l’impegno di voler vivere la vita stessa del Cristo, Figlio di Dio, in mezzo gli uomini. Nella prima Consacrazione è già contenuto tutto.
È troppo vago il nostro impegno? No, perché, come vi ho detto, per noi tutto deve trasformarsi in preghiera. Infatti, come il Cristo è pura relazione di amore e per Lui essere vuol dire vivere il suo rapporto col Padre, così per te, figlio di Dio, essere vuol dire vivere il tuo rapporto col Padre, essere preghiera.

Noi realizzeremo la nostra vocazione se saremo trasformati in preghiera.

La Comunità nel mondo

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La Comunità dei figli di Dio, oltre che in Italia, è presente con gruppi di consacrati anche in Africa (Benin), Australia, Sri Lanka, Colombia e Inghilterra. Sono presenti alcuni membri anche in Canada, U.S.A. e altre nazioni europee.

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La CFD in breve.

La Comunità dei figli di Dio (CFD) è una associazione pubblica di fedeli fondata da Divo Barsotti (1914-2006), che desiderano vivere nel mondo il mistero dell’adozione filiale, nello spirito del monachesimo interiorizzato.
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