giovedì, Dicembre 07, 2023

L’esigenza di conoscerci e di amarci (1980)

Vorrei semplicemente pensare, insieme a voi, che cosa abbia voluto dire lo stare insieme in questi giorni. Abbiamo ascoltato Dio, ma lo abbiamo ascoltato insieme; abbiamo fatto gli esercizi, e questi non solo ci hanno legato ancora di più a Dio, ma ci hanno legato maggiormente anche fra noi. È evidente che la risposta dell’anima al Signore che ci unisce più intimamente a Sé non può dividersi da una unione più intima che la grazia deve realizzare fra noi. Di fatto ogni volta che l’anima, prendendo coscienza di sé, risponde al Signore, questa risposta la si riconosce come autentica nell’amore dei fratelli che è il segno di quella. Ne deriva che da ogni corso di esercizi la Comunità rimane rafforzata e in qualche misura ne viene nuovamente fondata. Di qui non solo un dovere e un bisogno maggiore di amare Dio, ma anche un dovere e un bisogno maggiore di essere uniti fra noi.

Ci siamo incontrati con Dio, ma io mi sono incontrato con Dio anche quando stamani parlavo con uno di voi. Mi sono incontrato con Dio proprio nell’incontrarmi con ciascuno di voi, nell’imprimere sempre più profondamente in me non solo l’immagine fisica di ciascuno di voi (anche questo è importante dal momento che siamo uomini), ma anche la conoscenza di quello che siete voi; perché è indubbio che non conoscerei Dio se questa conoscenza di Dio non mi desse la capacità di penetrare maggiormente la vostra anima, di conoscervi più profondamente. Come l’amore per Iddio ha la sua prova nell’amore che ci lega ai fratelli, così anche la conoscenza di Dio implica una conoscenza reale, più vera, degli altri e di tutti gli altri. La mia gioia è stata grande proprio perché vi ho conosciuto di più.

La mia vita eterna, con l’amore che porto a Dio e con la conoscenza che ho di Lui, non potrà non essere anche l’amore e la conoscenza che ho avuto di voi. Una conoscenza e un amore che allora saranno perfetti, ma che sono incominciati quaggiù, perché vi è continuità vera fra la grazia e la gloria. E se vi è continuità, questo significa che la Comunione dei Santi già si matura nel tempo. Ecco perché ogni società religiosa anticipa la vita stessa del cielo. Non la anticipa soltanto nella lode divina, non la anticipa soltanto nella preghiera, ma anche nella conoscenza reciproca di coloro che il Cristo ha unito.

Dobbiamo dunque conoscerci e amarci. È una esigenza della vita cristiana, ma è una esigenza anche più profonda della vita religiosa, perché se siamo maggiormente impegnati ad amare Dio, siamo anche maggiormente impegnati a conoscerci fra noi e a volerci bene.

Esercizi ad Arliano (LU), 13-17 giugno 1980 – Omelia di chiusura

Farsi pane…per essere mangiati (1970)

La Comunità è una; così dobbiamo realizzare sempre di più che siamo uno (…). Come dobbiamo sentirci uno per vivere questa unità! Quanti siamo in Comunità? Uno, siamo Cristo; se siamo due è già la fine della Comunità. La Comunità allora si può dire reale quando ha la percezione viva di questa unità in cui Dio la raccoglie. Certo, siamo anche trecento, perché l’unità di un solo corpo, di un solo spirito non esclude la distinzione delle persone. Se escludesse la distinzione delle persone, escluderebbe lo stesso amore.

L’unità ontologica, fondata sull’unità di natura, non esclude la distinzione delle persone, anzi in questa unità di natura le persone si affermano in quanto amano, si amano fra loro, in quanto le persone, sussistendo in questa natura una, vivono una relazione totale di amore all’altra persona, ed è proprio questo che realizza l’unità. Questo vuol dire che ciascuno di noi realizza la sua persona come relazione pura d’amore alle altre persone. Io non sono che un dono di amore per tutti voi: dovete mangiarmi a colazione, a mezzogiorno e a cena. Non so se sarò indigesto, ma dovete mangiarmi sempre, non dovete lasciarmi più nemmeno un minuto di tempo, un affetto solo, un pensiero solo che non sia per voi. Lo dicevo a Firenze: ho capito che io non devo evadere più dalla Comunità, nemmeno per essere amico di monsignor Bartoletti o del cardinale Pellegrino.

Io debbo vivere per la Comunità fino in fondo, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo minuto della mia vita, senza sottrarvi più nulla perché io non sono che amore verso di voi: verso ciascuno in particolare, verso tutti in generale, senza escludere nulla. Tutto per voi, solo e unicamente per voi. Ma anche per voi è lo stesso! Altrettanto voi dovete vivere totalmente per gli altri, per tutti quelli della Comunità così da non sottrarre nulla. Essere a disposizione, essere totalmente mangiati l’uno dall’altro come ha fatto nostro Signore. Che cosa vuol dire per nostro Signore essere puro rapporto di amore agli uomini, Egli che è il Salvatore del mondo? Farsi pane per essere mangiato, e così ciascuno di noi dovrà farsi pane per essere mangiato. Non vivere che per donarsi, non vivere che il dono di sé agli altri e sentire che, quando non siamo mangiati, quello che ci rimane imputridisce, è perduto. Noi siamo soltanto se siamo amore; Dio è ed è l’Amore. Essere vuol dire amare; così noi non siamo, non realizziamo noi stessi come persone che in quanto siamo amore. Amore che è dono di noi stessi senza fine, senza misura, senza nulla trattenere per noi.

Questo certo ciascuno di voi lo deve vivere anche per i suoi, ma anche per la Comunità; proprio per questo io ho sempre detto che quando entra una madre, entrano anche i figlioli nella Comunità, che quando entra un marito entra la moglie, perché non possono dividersi! Il vostro dono al marito, il vostro dono ai figli è il modo di rispondere al vostro impegno religioso, non è più soltanto un fatto di natura; è veramente una risposta alla vostra Consacrazione e vi impegna a vivere questo dono totale di voi stessi a tutti coloro che Dio ha voluto una sola cosa con Lui nella Comunità, o attraverso la Comunità.

Esercizi spirituali a Brescia, 17-20 settembre 1970

Accogliere gli altri (1959)

Come realizzare questa universalità, questa unità in noi di tutte quante le cose? Come vivere in noi la vita di tutto l’universo? (…) Dobbiamo avvicinarci agli uomini, alle creature, ai fenomeni della storia umana, a fenomeni umani di razze, di culture, di lavoro, con un’anima pronta ad accogliere, con un’anima fraterna, disposta all’amore (…).

Ora, una conoscenza di cose che almeno momentaneamente ci sono estranee, non si impone a noi soltanto in forza di un impegno religioso, si impone perché effettivamente la Provvidenza ci pone in rapporto con gli altri. La Provvidenza stessa s’incarica di saggiare la tua carità mettendoti in rapporto con persone a te estranee. Tu devi saperle accogliere, devi saperle capire, assumere in te. Andate per le strade? Che nessuno vi rimanga indifferente, che non siate soltanto degli spettatori di questo vano andare degli uomini; sappiate immedesimarvi a ciascuno che voi incontrate, con cui dovete trattare. Se sei a lavorare, le persone per le quali tu lavori non devono esser soltanto delle persone che ti danno poi un salario; devono essere per te veramente delle anime che tu assumi, di cui tu assumi la responsabilità, di cui tu cerchi di penetrare il mondo per inserirti nel loro cuore o perché essi si inseriscano in te. Superare insomma l’estraneità che la nostra mancanza di amore cerca sempre di opporre; cercar di superare quel senso di diffidenza e di difesa del nostro egoismo che ci mantiene estranei alle persone con le quali noi viviamo, con le quali noi dobbiamo trattare, che noi vediamo giorno per giorno.

Si vive spesso il nostro rapporto con gli altri con gentilezza, con discrezione, magari con bontà, ma senza questa partecipazione intima, in modo che tutta la tua gentilezza non solo non distrugge la estraneità, ma la rende ancora più fonda: tu non disturbi l’altro, l’altro non disturba te. Quant’é meglio litigare in modo davvero che gli altri entrino in te, che tu li debba digerire e gli altri debbano digerire te!

Conoscenza che importa precisamente questo fondersi insieme, questo prendersi l’un l’altro. Prima di tutto attuare questo con quelli con cui vivete insieme, vivere già con essi l’unità vera, questa conoscenza intima l’uno dell’altro; saper accettare a prendersi, saper entrare nell’anima degli altri, nella mentalità degli altri, vedere le cose con i loro occhi, amarle col loro medesimo cuore, soffrire della loro stessa sofferenza. Questo bisogna fare con quelli con cui viviamo: la Provvidenza ci ha intanto offerto questi, prima di allargare i nostri confini.

Prima, l’impegno è l’amore per quelli vicini a te, quelli che il Signore ti pone istante per istante accanto, presenti nella tua vita: i colleghi d’insegnamento, i bambini della scuola, i compagni di lavoro,… con questi creare l’unità. Poi andare più in là: anche con quelle persone con le quali occasionalmente siamo in rapporto, o anche semplicemente che incontriamo per le strade; pensate le intime pene, i problemi, i drammi che si celano in tanta gente che incontriamo per via! Ogni persona è un mondo, eppure questi mondi come spesso sono estranei l’uno all’altro! Qualche volta ci si pensa, ma con superficialità, tanto per pensarci; non avvertiamo queste ansie. Tante volte possiamo esser passati accanto a dei santi e non ce ne siamo accorti, o accanto a dei demoni e siamo rimasti indifferenti. Perché questo? Perché ci chiudiamo, ci difendiamo: come dobbiamo rimproverarci!

Ritiro a Firenze del 18 gennaio 1959

La correzione fraterna (1959)

La carità fraterna ci renda meno suscettibili fra noi, permetta di correggerci a vicenda, di dirci le cose con chiarezza. Non dobbiamo aver paura di manifestare l’uno all’altro quelle che sembrano le deficienze fraterne, i difetti e magari i peccati. La correzione fraterna è uno degli obblighi più precisi e più gravi della carità. Un’anima che per falsa carità non volesse correggere il proprio fratello già per questo medesimo fatto si separerebbe da lui; e un’anima che non volesse accettare la correzione, per questo medesimo fatto non avrebbe quella carità che è anche umiltà, quella carità che non ha nulla da difendere, quella carità che importa precisamente un superamento di ogni orgoglio, che è l’orgoglio che ci chiude, che è l’orgoglio che ci difende.

Uno dei difetti fondamentali della Comunità mi sembra che sia questo: non ci si può correggere a vicenda, non ci si può dire l’uno all’altro: guarda, in questo fai male, guarda in questo devi smettere. Non lasciate che debba essere sempre il superiore a intervenire nel correggere. La correzione del superiore indubbiamente non è scusa, ma è l’ “ultima ratio”. Anche nel Vangelo si dice: prima di tutto correggi il tuo fratello nel segreto e se il tuo fratello non ti ascolterà vai allora dalla Chiesa. Prima di tutto l’esercizio di questa carità fraterna che importa un’unità vera, reale, esige una correzione fraterna semplice, cordiale, veramente umile e sincera fra noi. Tutti abbiamo difetti: non dobbiamo pretendere che gli altri non li riconoscano. Anzi, quanto dovremmo ringraziare Dio che gli altri riconoscano i difetti nostri e loro stessi ce li manifestino, loro stessi ce li dicano! Perché ai nostri medesimi occhi molto spesso (siamo così miseri!) i nostri difetti si ammantano di speciosi pretesti per essere giustificati. Non siamo così suscettibili, non siamo così ipersensibili da non sopportare un richiamo fraterno! Credo che la carità che ci unisce si debba provare massimamente da questo.

Perché come si può dire di amare veramente i nostri fratelli quando, riconoscendo in loro qualcosa che può essere difettoso, noi non procuriamo con la nostra preghiera prima, ma anche col nostro aiuto, col nostro consiglio, con la nostra correzione, di richiamare il fratello su questi difetti perché egli possa liberarsene?

Sia però la nostra correzione tale che non dimostri in noi saccenteria od orgoglio, che non dimostri in noi la pretesa di vedere sempre bene, non ci metta al di sopra degli altri. Noi, anche se possiamo correggere, sentiamoci a nostra volta più difettosi di coloro che correggiamo, così da saper accettare noi stessi il richiamo dei fratelli. Siamo cioè veramente un cuor solo ed un’anima sola. Proprio per questo la correzione fraterna è un grande bene, perché non importa che chi corregge si ponga su un piedistallo più alto di colui che è corretto, ma veramente in questa correzione si esercita una carità che pone tutti sul medesimo piano che è espressione di una medesima vita. Proprio per questo la correzione fraterna è superiore, in efficacia e con prova di amore, alla correzione che deve fare il superiore, il padre o la madre, perché la correzione che fa il padre o la madre necessariamente riveste un altro carattere: è una correzione che suppone non una maggiore virtù nel superiore, ma suppone però una responsabilità maggiore ed esige da parte di chi è corretto una maggiore umiltà.

Ecco, vi chiedo questo, miei cari figlioli. Mi sembra che sia molto importante. Il tacere, il non volere toccare gli altri per la paura che gli altri mettano fuori – come il riccio – le spine, è segno che effettivamente la Comunità non esiste. Non vi è ancora una vera unità di amore fra noi. L’ipersensibilità di coloro che si sentono offesi, che si sentono turbati da un richiamo, è indice in fondo che queste anime si difendono contro l’amore, non vivono una medesima vita con gli altri.

Quanto dobbiamo ringraziare Dio che non siamo soltanto noi a vedere noi stessi, a esaminare noi stessi! Ma l’esame della nostra vita è fatto da cento persone che appartengono alla Comunità e sotto gli occhi delle quali si svolge la nostra vita! Quanto siamo fortunati proprio per questo! Perché, è certo, è più facile che non sfugga nulla a duecento occhi mentre è molto facile che ci sfuggano ai nostri occhi tanti difetti, perché noi tutti siamo pieni di amor proprio e cerchiamo di velare, di nascondere a noi stessi i veri motivi del nostro operare, specialmente quando questi motivi sono motivi che indicano in noi una imperfezione reale.

Chiarezza! Umiltà! Cerchiamo di essere ruvidi gli uni con gli altri: che sia veramente l’amore, un amore umile e sincero quello che ci rende aperti e più chiari. Sarà prova di vera umiltà e di vera carità se noi arriveremo a vivere questa correzione fraterna in semplicità di amore. Il risentimento, la reazione immediata di chi si sente corretto e che a sua volta condanna può essere veramente anche questo indice di quanto sia povera la virtù e la pietà dell’anima stessa. E quante sono le anime che magari credono di andare in estasi e non possono essere corrette, richiamate anche in un solo punto senza immediatamente reagire, se non esteriormente (perché hanno una bella cura di non manifestarsi quali sono) almeno interiormente, col sentire un certo risentimento verso colui o colei che l’ha richiamato!

Umiltà vera, sincera, dolcezza di rapporti fraterni. Vorrei proprio che quest’anno che incomincia facesse cadere tutte le pareti che ci nascondono gli uni agli altri, tutte le difese del nostro egoismo e del nostro orgoglio che ci impediscono di essere gli uni agli altri chiari, manifesti, aperti, come agli occhi di Dio.

Ecco, figliole, quello che mi aspetto da voi. Ecco quello che mi sembra che il Signore ci chieda. È una cosa, in fondo, che tutti sentiamo che doveva essere, ma abbiamo fatto ben poco perché in realtà esistesse quest’apertura, questa chiarezza di rapporti.

Adunanza del 6 settembre 1959 a Firenze

Contemporanei di tutte le età (1959)

 Sentire che il mondo cinese, il mondo indiano è il nostro mondo; non vivere soltanto una civiltà come nostra civiltà, ma vivere in una simpatia viva verso ogni espressione di vita, verso ogni aspirazione umana, ma riassumere in noi tutti i bisogni umani, tutte le pene umane, tutti i peccati degli uomini come nostri, come fa Gesù.

Non sentire estranei a noi nessuno, né i poveri né i ricchi, né i malati, né i carcerati, né i vescovi, né gli umili, nessuno; non sentire estranei a noi non solo gli uomini che vivono oggi, ma gli uomini che vivevano migliaia di anni fa, le civiltà antiche ormai sepolte… Migliaia e migliaia di anni sono vissuti gli uomini prima che la storia parlasse di loro! Riviviamo noi questa oscura ricerca di Dio propria di millenni e millenni di storia umana, che è caduta come nel buio, che è come sommersa nella tenebra? Riviviamo noi questa ricerca ansiosa, paurosa, dolorosa dell’uomo, di una ragione, di un senso della vita, prima che Dio chiamasse Abramo? Riviviamo noi tutto questo? Eppure ciascuno di noi deve rivivere in sé tutto il travaglio umano, tutta la storia umana. Nel nostro povero atto, nella nostra povera vita, noi dobbiamo farci contemporanei di tutte le età, fratelli di tutti gli uomini, vicini ad ogni essere vivente: nella nostra misera vita, non soltanto contemporanei di tutti, ma prossimi a ciascuno.

Quant’è grande il Vangelo! L’amore cristiano che è amore universale, che non conosce limiti in sé, si chiama amore del prossimo. Come può essere universale se è amore del prossimo? Se è del prossimo non è amore dei lontani? Ma non esistono più lontani, tutti sono divenuti prossimi a te, tu sei contemporaneo di tutte le età. Uomini che sono morti cinquantamila anni fa, centomila anni fa, sono tuoi contemporanei: tu ne vivi la vita, tu devi riassumere la loro pena nella ricerca di Dio. Tu devi vivere l’ingenua ricerca di una divinità propria di queste anime che emergevano appena dal buio dell’incoscienza e della barbarie; tu devi vivere la vita di ognuno come tua propria, devi assumere il peccato di ognuno come il tuo proprio peccato, devi sentire nelle tue membra il tormento, la sofferenza, il dolore, il bisogno di ogni anima. Non è mica facile! Chi di noi può vivere una tale perfetta carità? Eppure è la nostra vocazione perché siamo chiamati a questo amore. La vocazione monastica ci chiama a realizzare l’unità della Chiesa in noi stessi. Ognuno di noi tutto; in Cristo è stata ricomposta l’unita dell’uomo. In quanto persone certo ci distinguiamo gli uni dagli altri, ma non possiamo separare più alcuno da noi. Noi siamo uno, il solo Cristo; siamo una sola cosa tutti, siamo un solo essere, una sola vita.

Vivere questa universalità: ecco l’impegno nostro. Così, proprio così, si collabora più efficacemente all’unità stessa della Chiesa, a quella unità della Chiesa che apparirà piena e perfetta solo dopo questo tempo, dopo questa economia presente, quando l’imperfezione propria della condizione umana sarà finalmente superata e visibilmente risplenderà la redenzione che già ogni anima vive nel suo intimo cuore.

Vi sembra che quello che ho detto sia un po’ troppo per aria? Ma si deve tendere a questo.

Dal Ritiro del 16 gennaio 1959 a Viareggio

Quando nasce la Comunità? (1955)

Nella prima alleanza, segno dell’alleanza stessa fu la Legge, il Decalogo. (…) L’alleanza antica si esprimeva cosi: Israele sarà legato a Dio attraverso il Decalogo. Nella nuova alleanza si dà una nuova legge, il comandamento nuovo: a tutti i comandamenti dell’antico patto risponde un solo nuovo comandamento: il comandamento dell’amore e dell’amore fraterno. San Giovanni insiste sull’amore fraterno più che sull’amore dell’uomo per Iddio. L’amore dell’uomo per Iddio non lo conosce san Paolo e lo conosce poco san Giovanni, benché i vangeli sinottici lo riconoscano. Gesù non dà un nuovo comandamento dell’amore dell’uomo verso Dio, non fa altro che confermare il comandamento del Deuteronomio: «Amerai il Signore con tutto il tuo cuore…».

Il nuovo comandamento di Dio è l’amore scambievole che debbono portarsi i discepoli. Ma attenzione: non è nemmeno l’amore del prossimo, non è un amore – questo è importante per noi della Comunità – come si esprime nei Vangeli sinottici: amore che rompe tutti i limiti, che non conosce le divisioni di razza, di religione; non è un amore universale gratuito. Può sembrare che il nuovo comandamento di Cristo sia di fatto un amore che restringa la concezione della carità cristiana, come era già stata espressa nei Vangeli sinottici. Di fatto non restringe nulla. Questo amore che è comandato da Cristo dopo l’ultima cena, è l’amore scambievole, quello che gli uomini debbono portarsi gli uni agli altri, e non gli uomini in genere, ma i suoi discepoli: un amore onde gli uni debbono amare gli altri come Gesù ha amato, di un amore totale, di un amore che è dono pieno e intero di sé, di un amore che importa anche il ricevere pienamente il dono dell’altro, di un amore che crea la comunità, l’unità dei credenti, l’unità dei fedeli, dei discepoli.

Un amore universale è un amore donato, offerto, ma non ha necessariamente una risposta. L’amore che invece è comandato da Cristo dopo l’ultima cena, è l’amore che esige la risposta, l’amore vicendevole: «Amatevi l’un l’altro». È l’amore che crea la comunità, che dimostra anzi, l’unità di tutti in Lui (…).

Comunità: omnia mea tua sunt et tua mea sunt. Non vi è più né tuo né mio: ognuno è impegnato a donarsi totalmente e non soltanto a donarsi, ma a ricevere anche il dono dell’altro. Non è vera carità quella che è soltanto dono. Ci manteniamo sempre in una condizione di privilegio, in fondo, donandoci soltanto. Dare e ricevere: dobbiamo sentire questo. Non vivremmo la Comunità se noi sentissimo soltanto di dover donare ad un’altra figliola perché è più semplice, più povera di noi. Anche questa figliola ha molto da donarci e noi dobbiamo ricevere il suo dono, sentire il bisogno del suo dono ed accettarlo. Con umiltà e semplicità essere veramente impegnati ad amarci l’un l’altro. Credo che sia questo veramente il nuovo comandamento di Cristo e che la Comunità esiga l’esercizio precisamente di questo amore vicendevole, che importa una compenetrazione dell’uno nell’altro, quasi una “circuminsessione” fra noi, una pericoresis. Quello che è proprio delle persone divine deve essere proprio anche delle persone umane nel mistero di quell’unità che è il Cristo totale. Come nell’unica natura di Dio sussistono tre persone divine le quali l’una all’altra e l’una all’altra si donano, così nell’unità del corpo mistico di Cristo, di quel corpo che ha realizzato precisamente l’unione eucaristica, nell’unità di questo corpo mistico l’uno vive nell’altro, dona se stesso all’altro e riceve (…).

In fondo, c’è dell’orgoglio nel voler soltanto amare e donare, nel voler soltanto far noi: dobbiamo sentire anche il bisogno degli altri. Non soltanto il bisogno di darsi, ma anche il bisogno di ricevere. Vi potrà sembrare che io non possa ricevere nulla: io debbo invece ricevere tutto da voi, come tutto voi dovete ricevere da me.

Allora nasce la Comunità: quando il dono è veramente reciproco.

Incontro del 7 aprile 1955, Firenze

Amiamo perché amiamo (1980)

Miei cari fratelli, è stolto pensare che l’amore cristiano debba volgersi al terzo mondo, se intanto si rifiuta alle persone che ci sono vicine. È la Provvidenza che determina come il nostro amore deve essere vissuto, volendo che alcune persone siano anche concretamente più legate a noi e altre ci siano più vicine. Questo non implica che io sia eternamente condizionato dalla vostra presenza, ma se io cerco di amare al di là della mia famiglia di sangue o della mia famiglia religiosa, per amare gli altri, io non amo.

È facile amare gli altri, perché gli altri non ci danno noia. Il mio amore fraterno potenzialmente non deve escludere nessuno, deve essere universale per sé, però rimane condizionato dalla mia stessa natura, dal luogo dove sono, dall’ambiente in cui vivo, dalle persone che il Signore mi mette vicino. E questo che cosa vuol dire per noi? Prima di tutto amarci fra noi. È quello che ci ha insegnato Gesù medesimo nel IV Vangelo: «Amatevi vicendevolmente» (Gv 13, 34), Egli dice, e lo dice a proposito dei suoi discepoli.

(…) Si è detto altre volte che l’amore cristiano, come l’amore di Dio, non solo è universale, ma è anche gratuito, senza motivo. Io debbo amare non perché l’altro mi ama, io debbo amare non perché l’altro mi odia; amo perché amo. Ma il mio amore non è mai un amore di reazione. Nietzsche non ha capito nulla dell’amore cristiano, quando ha detto che la morale cristiana è la morale degli schiavi, perché – diceva – i cristiani fanno come i cani, che ricevono un calcio dal padrone e gli leccano i piedi invece di morderlo. «Tu, se uno ti dà un calcio, dagliene cinque – diceva Nietzsche – così dimostri di essere uomo; questi cristiani sono soltanto degli schiavi». Non è vero; non perché il nostro amore non debba rivolgersi anche a chi ci odia, ma perché noi non amiamo perché siamo odiati e neppure perché siamo amati; amiamo già in precedenza. Il nostro amore precede l’altrui atto e per questo rimane gratuito. Amiamo. Non possiamo vivere un rapporto con gli altri che come atto di amore. Così anche Dio.

Però se l’amore cristiano è un amore gratuito, se è vero, non pretende una risposta ma l’attende. Se noi fossimo indifferenti, nemmeno ameremmo. Saremmo alla pari del padrone che dà al suo cane un tozzo di pane e lo manda via, non gli interessa poi nulla, se il cane ha riconoscenza per lui. Dio non può amarci così. E nemmeno noi possiamo amare così, pur dovendo noi amare di un amore disinteressato, perché il nostro amore, se è cristiano, crea la comunità e la comunità non si realizza che in quanto l’amore diviene vicendevole. Io non faccio dipendere il mio amore per voi dal fatto che voi rispondiate o meno al mio amore, però l’amore vero crea la comunità, cioè all’amore che io dono risponde l’amore dell’altro. «Amor che a nullo amato amar perdona» (Dante, Inferno V, 103) rimane vero anche nell’amore cristiano.

E anche nell’amore di Dio. È l’amore di Dio che fa i santi, ma i santi devono rispondere all’amore. È indifferente per Iddio che uno risponda al suo amore? No, perché Egli dona il paradiso a chi gli risponde, mentre chi glielo rifiuta non può andare in paradiso. E non già perché Dio lo condanna, ma perché, se rifiuta l’amore, non può nemmeno riceverlo. Noi siamo realmente amati solo nella misura che, accettando l’amore, rispondiamo all’amore.

Esercizi spirituali a La Verna, 3-10 agosto 1980

Una carità senza confini (1962)

La legge per il Cristianesimo si riassume praticamente nella carità, nel vivere in modo concreto l’unione fraterna fra noi: viverla con uno scambio frequente, anche epistolare, viverla con l’ospitalità generosa (che le nostre case siano sempre aperte nella misura del possibile alle nostre sorelle, ai nostri fratelli), viverla con una carità fraterna che implichi il superamento di tutto quello che può opporsi alla carità. Amor proprio, suscettibilità, invidie, gelosie, non debbono esservi fra noi. Che si possa realizzare pienamente quello che si diceva della Chiesa primitiva: siamo cioè un cuor solo e un’anima sola. Non potremo mai vivere la nostra professione religiosa, la nostra consacrazione al Signore, che in un’umile, ma sincera volontà di amarci sempre più, e di amarci sempre di più nel Signore. La carità impegna più di tutto, dunque, a vivere nella Comunità creando questa unità dell’amore che deve essere la testimonianza più alta che noi dobbiamo rendere agli altri, a coloro che vivono al di fuori della Chiesa, anche a coloro che vivono nella Chiesa, ma non vivono un impegno di perfezione religiosa. Questo dunque ci deve caratterizzare, così come caratterizzò i cristiani primitivi: «Guarda come si amano».

Ma non è sufficiente. La carità non è soltanto un amore vicendevole e reciproco che ci unisce fra di noi: è un amore, anche, che trabocca dalla Comunità e non conosce confini e raggiunge tutti, e colma, nella misura del possibile, le aspirazioni di tutti, o almeno vuol venire incontro a ciascuno in un servizio vero, concreto, umile, di amore. Prima di tutto si impone alla Comunità il vivere l’ansia, l’aspirazione di una unità di tutti i cristiani nella Chiesa una. La Comunità, dunque, deve favorire la conoscenza dei cristiani da noi separati, tanto orientali che occidentali. Deve, se sarà opportuno, stabilire rapporti epistolari e anche rapporti umani con cristiani e movimenti religiosi di altre confessioni, senza voler fare del proselitismo, unicamente perché si stabilisca questo rapporto di amore. È l’amore, se è grande, che deve stabilire poi quella unità piena che ci ricongiungerà tutti insieme nell’unica Chiesa.

(…) Ma non termina qui per noi l’esigenza della carità, legge suprema del cristiano, legge pertanto suprema della Comunità. Il traboccare della nostra carità verso gli altri ci porta a sentire profondamente il problema missionario, a studiarlo; importa che noi sentiamo il bisogno di vivere, di essere presenti in ogni luogo della terra, per rendere testimonianza di una presenza di Dio a tutte le anime, non solo ai cristiani di qui ma anche a coloro che ancora non conoscono il Cristo, ma anche a coloro che lo hanno perduto. È una esigenza della Comunità lo stabilirsi anche nei paesi infedeli, e prima o dopo la Comunità dovrà portare le sue tende al di fuori dell’Europa, in ogni continente, in ogni terra: non per fare l’apostolato diretto, ma perché è un’esigenza del nostro amore conoscere tutti, amare ciascuno, e volere l’unità con tutti, così come ognuno di noi vuole la sua unione con Dio; perché noi tutti – dal momento che possediamo la verità, possediamo il Signore, crediamo almeno di possedere la grazia – siamo debitori a tutte le anime di rendere testimonianza di questa presenza dell’amore dei nostri cuori, amando e sacrificandoci per tutti, mettendoci a servizio di tutti in umiltà, in semplicità ma nella verità.

E la legge dell’amore non termina qui, per noi, le sue esigenze: esige che ci sentiamo impegnati – ciascuno nel suo campo, ciascuno nella sua condizione e nel proprio stato, ciascuno secondo le sue possibilità, nell’esercizio della sua professione – ad un servizio che non conosce altra misura che le sue possibilità, altra misura che il dono di sé vissuto con semplicità ed umiltà ma realmente, nei riguardi di tutti i fratelli e particolarmente di coloro che sono a noi più vicini e di cui perciò possiamo conoscere più profondamente i bisogni.

Dobbiamo ricordarci che se in noi deve viver l’amore, l’amore ci impone la morte come la impose a Gesù. Non si ama mai senza morire: morire a noi stessi, ai nostri egoismi, alle nostre piccole invidie, alle nostre suscettibilità, alle nostre gelosie, alla nostra pigrizia e lentezza nel bene. Dobbiamo viver l’amore, e siamo impegnati perciò a morire continuamente a noi stessi per vivere il dono di noi stessi a ciascuno. Soltanto nel superamento continuo dei nostri egoismi la Comunità può vivere, la Comunità può essere davvero, come lo era la Chiesa primitiva, un cuor solo e un’anima sola. A questo ci impegna la nostra professione religiosa. E ci impegna poi a vivere un amore che non soltanto ci prenderà totalmente, ma crescerà sempre più nel nostro cuore fino a proporzionarci in qualche modo a Dio stesso, ci impegnerà ad amare ciascuno, non solo dentro la Comunità ma anche al di fuori: tutti i cristiani nei loro particolari bisogni, tutti i cristiani anche separati, tutti gli infedeli, gli atei, i nemici di Cristo e della Chiesa: ad amare tutti, a non avere per tutti altro che amore.

Dall’Adunanza del 4 Novembre 1962 a Firenze

“Chi ama suo fratello, dimora nella luce…” (1990)

Commento a 1Gv 2, 3-11

L’impegno dell’uomo è divenire Dio, Egli è il suo fine; e divenire Dio, vuol dire divenire, essere amore.

L’amore di Dio e l’amore del prossimo non sono due comandamenti. Se l’amore del prossimo infatti non fosse un solo comandamento con l’amore di Dio, come posso dire di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le mie forze? Non posso toglier nulla all’amore di Dio. L’amore del prossimo è incluso nel mio amore per Iddio. Ed è comandamento nuovo in Lui che si è fatto presente e accessibile in Cristo, ed è nuovo in noi perché ora noi possiamo non solo accoglierlo ma anche adempirlo nel Cristo. Così il Cristo è l’‘oggetto’ dell’amore dell’uomo, ed è per il Cristo che l’uomo può amare. La vera luce che ora risplende è la conoscenza di Dio in Cristo.

Finalmente gli uomini hanno conosciuto Dio che è l’Amore. Ma questo comandamento nuovo ora appare non tanto l’amore di Dio, quanto l’amore del fratello. L’amore del prossimo avrebbe dunque sostituito, in san Giovanni come in san Paolo (ai Romani) l’amore stesso di Dio? Certo è che in san Giovanni ai comandamenti si sostituisce un solo comandamento, e questo è l’amore del prossimo. Se le tenebre si sono diradate e già la Luce risplende e la Luce è Dio, la Lettera di san Giovanni ora, nella comunione dei fratelli, vede ed ha la rivelazione suprema di Dio. Gli apostoli hanno veduto il Cristo e lo hanno ascoltato, lo hanno toccato; per l’annuncio degli apostoli gli uomini, che hanno creduto nella loro parola, sono entrati in comunione fra loro, come essi erano in comunione col Padre e col Figlio.

La Koinonia è subentrata alla Presenza visibile del Verbo della vita. La comunità dei credenti ora è il sacramento visibile di Dio. Come gli apostoli hanno vissuto una comunione con Dio nell’esperienza del Figlio di Dio fatto uomo, così i credenti vivono ora una comunione con Dio nella comunione fra loro. L’amore di Dio non è sostituito, ma come gli apostoli hanno vissuto questo amore nella loro comunione col Cristo vivente, così ora i credenti vivono l’amore di Dio in questa comunione fra loro. In questa comunione essi vivono la comunione col Padre e col Figlio. Questa stessa comunione dei fratelli è il sacramento della Presenza di Dio.

Questo dunque manifesta come noi siamo nella luce e non nelle tenebre: che amiamo i fratelli. Il Regno di Dio nel quale siamo entrati, questa luce che deve illuminarci e accompagnarci nel cammino, è precisamente l’amore. La comunione dei fratelli è già il Regno di Dio: le tenebre per il discepolo sono scomparse. Egli vive nella luce. «Dio è Luce e in Lui non vi sono tenebre». Non si cerchi Dio al di fuori dell’esercizio di questo amore umile, sereno, semplice, ma che è la vita.

Così nella comunione è presente, per l’uomo, Dio. La notte è superata e l’uomo che ama è già entrato nella luce. È il trionfo della Comunità. In un mondo chiuso nell’odio e nell’egoismo, in un mondo di tenebra si è fatta la luce, perché è nata la Comunità dei fratelli (…).

Nessuno più di Giovanni ci ha dato una teologia della Chiesa come comunione degli uomini fra loro e degli uomini con Dio. È vero che la comunità dei fratelli, in san Giovanni, sembra essere una comunità chiusa: è aperta a tutti coloro che amano e vogliono amare, ma non può accogliere chi non ama. Chi non ama è nelle tenebre e cammina nelle tenebre. «La luce già risplende», ed è la presenza di Dio nel Cristo, ma chi non ama è cieco e non può vedere. Come non vive una comunione coi fratelli, così non vive una sua comunione con Dio.

Meditazioni sulle tre lettere di Giovanni, San Paolo 2013, pp. 43-47

Umiltà e purezza, le note dell’amore (1980)

L’amore implica la dimenticanza di sé, l’amore implica lo sparire. Chi vuol essere qualcuno, questi non ama; perché siamo soltanto nella misura che amiamo, e nella misura che amiamo ci doniamo, non siamo più per noi, siamo per gli altri. Di qui l’umiltà. Per essere chiari, si cresce nell’amore nella misura che si cresce nell’umiltà. Senza umiltà non vi è amore, perché anche se ci sembrerà di amare, noi faremo tutto soltanto per dire di aver fatto qualcosa e di essere qualcuno. Soltanto l’umiltà alimenta l’amore. Se noi non ci sapremo liberare progressivamente da ogni orgoglio interiore, da ogni vanità, da ogni amor proprio, da ogni desiderio di emergere, da ogni volontà di affermarci, noi non ameremo.

Anche quando diciamo di amare, il nostro amore non è vero perché anche attraverso quello che facciamo, diciamo noi stessi. Ecco perché dice san Paolo: «Se tu dai tutti i tuoi beni ai poveri, non giova a nulla» e vai all’inferno lo stesso. E quanti sono nella Chiesa che vanno all’inferno lo stesso, anche se fanno tante opere di carità, perché attraverso queste opere non vogliono altro che far risaltare il loro nome (…).

Non sono nemmeno le opere che si fanno che dimostrano la nostra carità, ma l’umiltà vera che noi abbiamo. Senza l’umiltà l’amore non esiste, perché l’amore implica sempre il metterci noi a servizio dell’altro, il vivere noi ordinandoci all’altro; non ordinare l’altro a noi, non ordinare tutto quello che facciamo alla nostra gloria, alla nostra fama, ma far tutto e non chiedere nulla per sé, perché questo è l’amore, la dimenticanza di sé. «Mi dimentico talmente di me, che non so più nemmeno se esisto», diceva santa Teresa. Ecco la vera espressione della carità.

La carità esige umiltà; tanto sapremo amare, quanto sapremo essere umili; ecco la prima esigenza. La seconda esigenza è la liberazione dalla concupiscenza. Il cercare il nostro piacere, il volere il nostro godimento fa sì che noi, senza rendercene conto, strumentalizziamo le altre cose a noi, per cui siamo noi che vogliamo qualcosa, non siamo noi che ci doniamo. L’umiltà e la purezza sono sempre la nota fondamentale dell’amore. Là dove non c’è l’umiltà, là dove non c’è la purezza non c’è amore.

Ecco perché l’amore cristiano, anche nel matrimonio, esige la monogamia, esige la fedeltà a un’unica sposa, esige che proprio nel matrimonio si possa vivere questa liberazione da tutte le tentazioni che possono sorgere e che ci fanno sbandare, che ci portano lontano, che intristiscono anche l’amore. Tante volte, perché tanti matrimoni non reggono più? Perché sotto sotto o il marito o la moglie hanno altri amoretti, perché sorgono certi altri amori, oltre l’amore consacrato da Dio. E questo anche quando non si può dire che ci sia peccato; ma è sempre come un deposito che perde l’acqua, perché cede da ogni parte. L’amore non c’è più, e pian piano la famiglia intristisce e invece di essere una chiesa domestica – espressione stessa di una comunità cristiana in cui regna l’amore -, diviene soltanto una pensione dove il marito va a dormire e ci va perché ci trova una donna che gli fa da mangiare, ma il suo cuore e l’anima sua vivono altrove. Quante volte tutto questo avviene oggi! Perché anche qui non sappiamo essere casti. Anche l’amore esige la castità, perché esige una fedeltà all’unica persona alla quale ti sei donato e ti sei donato per sempre.

Umiltà e castità, ecco le note vere dell’amore. Là dove non ci sono queste due virtù non c’è nemmeno l’amore. Che cresca in noi questa umiltà, che cresca in noi sempre più anche questa castità, questa libertà da ogni istinto, per vivere davvero l’ordinarsi nostro a quelli che amiamo, il vivere noi per gli altri; non volere che gli altri vivano per noi.

La nostra gioia è quella di poterci donare, è quella di poter vivere noi per coloro che amiamo.

Esercizi spirituali a Chiusi della Verna, 3-10 agosto 1980