giovedì, Dicembre 07, 2023

La Bibbia dei poveri (1975)

Dicevo ieri all’Omelia che ho ricevuto da un eremita (Daniel Ange) un libro piuttosto singolare: [Dalla Trinità all’Eucarestia, poi pubblicato nel 1980 da Ancora], la contemplazione del Mistero della Trinità in due veglie di preghiera fatte dinanzi all’icona della Trinità del Rublev e che introducono l’anima nel Mistero della Santissima Trinità proprio attraverso questa medesima icona. Fino a qualche secolo fa il popolo cristiano meditava i misteri della nostra religione contemplandoli nell’arte dei musei o negli affreschi di cui erano letteralmente piene le pareti del tempio: la ‘Bibbia dei poveri’ si chiamava allora, ma qualche volta è una Bibbia più sapiente, più ricca, più viva dei nostri commenti della Scrittura, che poi d’altra parte non raggiungono più tutto il popolo cristiano, perché oggi si compra la Bibbia o i commenti della Sacra Scrittura… e chi li legge? In realtà la visione di una pittura, di un affresco, di una tavola è non solo infinitamente più facile, ma può offrirsi in un modo più semplice a tutti i cristiani, ed è veramente grave che nella nostra Chiesa cattolica l’arte sia divenuta soltanto un fatto di decorazione, di ricchezza; la ricchezza non è mai un fatto religioso.

L’arte puramente decorativa distrugge l’arte sacra, sia architettura, scultura o pittura. Non nego che vi siano grandissimi pittori italiani; nego che dopo un certo periodo della storia, questa pittura o scultura o architettura sia sacra: è una scultura e una pittura che dovrà essere portata fuori di chiesa. Bisogna dare tutta questa pittura allo Stato perché se la conservi, perché in realtà questa pittura distrae; è cosa antireligiosa e antisacrale.

Ma l’arte non è stata sempre così; si è detto che per tanti secoli è stata invece lo strumento più universale di formazione, di educazione religiosa per il popolo e lo è ancora nella Chiesa orientale e nella Chiesa ortodossa. Noi abbiamo una grandissima e ricchissima, ma non in senso vero, arte sacra, fino forse a tutto il secolo XIV, e anche forse XV, almeno una parte. Invece di meditare solo gli scritti di santa Teresa o di san Giovanni della Croce o di sant’Ignazio di Loyola o di san Francesco, sarebbe molto importante che noi meditassimo la pittura per esempio di Giotto, di Cimabue, forse anche di Masaccio, e – perché no – il Beato Angelico. In ogni città vi sono delle grandi opere d’arte sacra; sarebbe meraviglioso, per esempio, se Valentina volesse istruirci sull’arte di Chiusi, se se ne ricorda. Non farci una relazione sull’arte, ma arrivare veramente a una meditazione, a una contemplazione teologica del Mistero attraverso proprio il contatto con certe opere d’arte; è una cosa che dobbiamo cominciare a fare. Guardate che sono 500 anni che non lo fa più nessuno.

Lo dobbiamo fare noi; è meraviglioso pensare che nell’Oriente le opere d’arte sono teologia. Guardate che anche oggi in Russia si può dire che i teologi son nati da un secolo e non sono mica grandi, ma teologia vera sono le opere di Teofane il Greco e di Rublev, ed è vero ed è giusto che sia così, anche perché a differenza del ‘Testamento’ di san Francesco o delle opere di san Giovanni della Croce, le opere d’arte pittorica hanno un carattere più universale della poesia e del trattato. Gli scritti di santa Teresa ci rivelano, ci rendono testimonianza della sua esperienza interiore – così è per san Giovanni della Croce – e non si adattano a tutti. È un grave errore che tutti si voglia passare per quella via; l’arte non tanto è testimonianza ed espressione della religione propria di colui che dipinge, quanto forse anche di tutto un mondo, di tutta un’epoca. È indubbio che le grandi cattedrali romaniche in Italia e le grandi cattedrali gotiche della Francia, sono più la testimonianza della religione di un popolo che la testimonianza della religione di un architetto. E quello che è vero per la grande architettura è vero anche in un certo senso per la pittura; ecco perché nell’Oriente le icone non hanno in generale il nome dell’artista che le ha dipinte – in generale non si conosce e non ha importanza – però in realtà l’icona è la testimonianza, è l’espressione della vita religiosa di tutta la Chiesa ortodossa russa, di tutta la Chiesa ortodossa greca, dei popoli orientali cristiani.

Sarebbe una cosa meravigliosa se un altro anno Margherita (Santi) facesse una relazione sulla Maestà di Cimabue, che è stupenda; Cimabue è veramente un uomo religioso. Si può fare un libro di studio teologico e spirituale sulla Maestà di Cimabue, sulla Maestà di Giotto. Anche i palermitani possono fare uno studio su alcuni mosaici di Monreale o della Cappella Palatina. Chi è di Venezia (qui abbiamo la nostra carissima Fernanda) può meditare su alcune opere di San Marco (…).

Mi piacerebbe che tutti facessero qualcosa; magari soltanto una paginetta, non chiedo di più.

Ritiro del 29 giugno 1975 a Casa San Sergio (FI)

 

L’unica vera giustizia di Dio è la sua misericordia (1990)

Dal commento a 1Gv 1,8 – 2,2 – Vivere nella Luce, camminare nella Luce vuol dire aver coscienza di essere peccatori; ma proprio perché ci riconosciamo peccatori siamo perdonati da Dio. Sant’Agostino ha detto: Dio accusa il tuo peccato, se lo accusi anche tu, già si inizia una tua unione con Lui, già ti trovi d’accordo con Dio. Dio ci chiede che noi riconosciamo il nostro peccato, perché possiamo essere perdonati ed amati da Lui. La condizione per ricevere il suo amore è sapere che questo amore non solo è gratuito, ma è un amore che suppone il nostro nulla, e il nostro peccato. In un certo piano ipotetico Dio doveva essere soltanto bontà che si effondeva nel nulla della creatura, ma sul piano della concreta realtà il rapporto dell’uomo con Dio suppone il peccato dell’uomo. L’amore di Dio è l’amore di Colui che è morto per l’uomo.

«In questo – scrive Paolo – si riconosce l’amore di Dio, che essendo noi peccatori, Cristo per noi morì» (cfr. Rm 5, 8). L’unica cosa che importa è che noi riconosciamo il nostro peccato. La compunzione è una delle componenti essenziali della vita cristiana. Il sentimento del peccato che ci accompagna, non è un motivo di angoscia che ci allontana da Dio, ma piuttosto ci avvicina se Dio si è fatto presente come Salvatore. Per questo le parole di Giovanni sono particolarmente forti: dire che non abbiamo peccato è far bugiardo Dio.

Così ci impedisce di accostarci a Dio l’orgoglio, che non vuole accettare il perdono. Non è la nostra natura che lo attira, è stato invece per il peccato dell’uomo che si è incarnato in una natura umana passibile, che doveva conoscere la morte.

Di qui la conseguenza: «Se dunque riconosciamo il nostro peccato, Dio è fedele e giusto, e ci perdonerà». Sembrerebbe che, essendo giusto, al riconoscimento del nostro peccato dovrebbe seguire la nostra condanna, ma la giustizia di Dio non è una giustizia per la quale Egli ci accusa e ci condanna, è la giustizia per la quale Egli giustifica l’empio, insegna san Paolo. La giustizia è quella virtù che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto. Ma che cosa è dovuto all’uomo da parte di Dio? Dio non ha nessun dovere nei confronti dell’uomo, e l’uomo non ha nessun diritto nei confronti di Dio. Dio non può esercitare questa giustizia. Che cos’è allora la giustizia di Dio? È la giustizia per la quale Egli deve a Se stesso di essere Dio e, siccome Dio è Amore, il fatto che Dio deve a Se stesso di essere Dio, implica per Iddio di essere misericordia infinita. È l’insegnamento del Beato Suso: «L’unica vera giustizia di Dio è la sua misericordia».

Anche una condanna eterna non può riparare il peccato. Il peccato rimane e rimane per sempre l’inferno; dunque l’inferno non ripara il peccato altrimenti la pena non sarebbe eterna. Nessuna pena, nemmeno tutta l’eternità potrebbe mai cancellare il peccato. Se Dio vuole che si compia giustizia, Egli stesso deve farla a Se medesimo. Ma come la fa? Che cosa deve Dio a Dio? Quello di essere Dio, e Dio è l’Amore, l’Amore infinito. Alla giustizia di Dio risponde solo un Amore, una Misericordia infinita.

Ed Egli è fedele: ci ha scelto fino dall’eternità, rimane fedele per l’eternità. Dio ha scelto Israele, Israele rimane sempre il popolo prediletto da Dio. La Chiesa non subentra a Israele, ma la Chiesa è l’olivo che si innesta nella radice santa. L’elezione divina rimane… Dio non cambia. Una scelta che Egli abbia fatto, rimane per sempre. Ma vi è una condizione alla giustizia e alla fedeltà di Dio perché ci perdoni e ci riammetta nella sua intimità: è che noi riconosciamo il nostro peccato.

La prima condizione della vita cristiana non è quella di essere buoni, ma quella di riconoscere il nostro peccato.

Il peccato precede la nostra fedeltà ai comandamenti, ma l’Amore di Dio precede anche il nostro peccato e Dio ci ha scelto nel Cristo, in Colui che avrebbe pagato per noi con la morte di croce, fino dall’eternità.

La prima esperienza che l’uomo ha di se stesso nei confronti di Dio è di essere peccatore. Questo riconoscimento è la condizione prima alla vita. 

Meditazioni sulle tre lettere di Giovanni, San Paolo 2013, pp. 39-42

Senso del peccato e misericordia di Dio (1980)

Il sentimento di umiltà nasce dal rapporto vero col Cristo. È nella misura che conosco Dio che conosco me come creatura, perché fintantoché non conosce Dio, l’uomo si sente sempre qualcosa. Altre volte vi ho detto che l’umiltà deriva dalla fede; cioè se non mi pongo davanti a Dio non sarò mai umile. Potrò esser modesto, ma non sarò mai umile. Nei tuoi confronti io sono un uomo; io posso avere una certa intelligenza e tu ne hai un’altra; ma non c’è mai umiltà, perché nei confronti di un altro uomo io resisto. È soltanto nei confronti di Dio che in me viene meno ogni senso di un mio valore perché tutto ricevo. Lo stesso essere non è mio, ma mi è stato donato. Io non sono nulla! Non potrei mai usare in senso proprio il verbo ‘essere’, perché perfino l’essere mi è stato donato; io non ne ho la proprietà, perché mi può essere tolto in qualunque istante. Io sono sicuro della mia eternità perché Dio me la garantisce, ma in me non c’è nulla che me la possa assicurare. È soltanto dunque di fronte a Dio che posso realizzare il mio nulla.

Ma su ventiquattro ore quanto tempo stai alla presenza di Dio? Si parla di Dio come concetto, ma come si vive realmente alla presenza di Dio? Il problema è tutto qui. Infatti che cos’è la vita del cielo? In cielo non hai da fare altro che stare alla presenza di Dio e vivi questo tuo nulla e l’essere infinito di Dio. Per stare in paradiso non dobbiamo fare altro che vivere nella Presenza. Ed è questo che dobbiamo vivere anche quaggiù. So benissimo che davanti a Dio non siamo nulla, ma lo si dice a parole, perché di fatto poi, non vivendo davanti a Dio, crediamo sempre di essere qualcosa e oltretutto ci teniamo ad essere qualcosa. Il problema è qui: tu devi mantenerti nella sua presenza per sentire il tuo nulla.

Nei confronti del Cristo poi – ecco il peccato – è vero che se tu approfondisci soltanto il senso della colpa, questo non ti porta ad una umiltà che apre, ma ad un senso di abiezione che fa più male che bene, anche sul piano spirituale. Non per nulla sul piano spirituale, indipendentemente dal fatto religioso, oggi, proprio perché c’è meno fede, si desidera che il senso del peccato venga meno perché così l’uomo acquista una maggiore libertà. È giusto? Per chi non ha fede non trovo nulla da eccepire, perché chi non ha fede non ha modo di superare questa paralisi che il senso della colpa crea in lui. Meglio eliminare il senso della colpa, il complesso della colpa, come vi diranno tutti gli psicanalisti. Su un piano naturale è giusto perché non vi è modo di rimediare al peccato.

Per noi il problema è un altro: il senso del peccato nel cristianesimo nasce dal fatto che siamo amati e amati per nulla. E tanto più l’amore di Dio è reale, quanto più si riconosce che questo amore è gratuito. Ma se l’amore di Dio è veramente gratuito, il senso del peccato, invece di paralizzarti, ti apre ad una confidenza sempre maggiore. Ecco quello che dice santa Teresa di Gesù Bambino nell’ultima pagina della sua Autobiografia: «Io sento che se anche avessi commesso tutti i peccati possibili, in me non diminuirebbe di un grado la mia confidenza in Lui» (…).

È la misericordia infinita che fa nascere in noi il senso del peccato; proprio perché non crediamo nella misericordia, noi ci atteggiamo sempre a essere buoni. Proprio perché non crediamo nella misericordia, cerchiamo di farci belli. Una donna che invecchia e può non piacere più al suo uomo, sta davanti allo specchio anche delle ore per farsi bella, e ugualmente le anime pie cercano di farsi belle perché non credono nella misericordia di Dio. Invece nella misura che conosci il Cristo e lo conosci come misericordia infinita, e lo conosci come l’amore incarnato, è proprio il senso del tuo peccato che fa presente in te Lui che è misericordia (…).

Il senso del peccato nel cristiano non è mai separabile dall’atto col quale l’anima si apre alla misericordia infinita, perché se separi il senso del peccato da questo senso della misericordia di Dio, allora tu rompi l’unità della vita spirituale. L’unità della vita spirituale è sempre Dio e l’uomo che realizzano una loro unione nell’amore. L’amore che realizza l’unità fra l’uomo e Dio è un amore che è misericordia, è un amore che suppone il nulla della creatura e il peccato dell’uomo.

Esercizi spirituali ad Arliano (LU), 15 giugno 1980

Sperare nella misericordia (1988)

Una delle pagine più belle che abbia mai scritto il Papa Giovanni Paolo II è sulla misericordia di Dio; la parte finale della enciclica Dives in misericordia è una visione terrificante della situazione del mondo… Però, al termine, una pagina magnifica di speranza, perché se è grandissimo il peccato dell’uomo, la misericordia di Dio è infinita. Noi dobbiamo sperare, non ‘possiamo’, ma ‘dobbiamo’ sperare nella salvezza del mondo, anche se ci sembra che le nostre possibilità siano nulle.

Sì, le nostre sono nulle, ma le possibilità di Dio sono infinite e io debbo sperare nella salvezza. Non posso condannare nessuno: se condanno anche una che ha abortito cinque volte, vado io all’inferno, perché io non posso condannare. Colui che solo condanna è anche Colui che prima di tutto è misericordia. Certo suppone il tuo pentimento, perché non può riceverti se non ti apri ad accogliere il dono divino, però io debbo sperare, e in me la speranza deve crescere. Anche di fronte all’abisso del male che si è rovesciato sul mondo la mia speranza deve crescere; non possiamo essere pessimisti. Dio è il salvatore, se no che cosa sarebbe valso morire su una croce se noi dovessimo essere tutti dannati? E se noi guardiamo intorno a noi, sembra che non vi sia che peccato, immoralità, incredulità… Ma più grande di ogni peccato è l’infinita misericordia divina.

Noi dobbiamo sperare. E tanto più è vera la speranza quanto più essa è priva di motivi umani, il che è come dire che solo il disperato può veramente sperare. Fintanto che tu hai un grosso conto in banca, speri nei soldi, poi speri nella tua salute per potere dare gli esami, speri di avere una buona moglie, e poi in una vita lunga, ecc., ma fintanto che speriamo queste cose non si spera in Dio. È quando ci mancano tutte queste cose che la nostra speranza è vera. E di fronte alla visione terrificante di un mondo che sembra precipitare nel vuoto, deve crescere la speranza nella Chiesa, perché Dio ha voluto la Chiesa per salvare il mondo, non per far bella figura. Dio l’ha voluta perché la Chiesa deve salvare questo mondo, deve operare la salvezza (…).

Eppure diviene sempre più difficile credere. Fintanto che l’uomo era al centro della creazione e la terra il centro dell’universo, era più facile credere che Lui potesse anche farsi uomo, visto che l’uomo valeva qualche cosa. Ma via via che si è proceduto col pensiero, che cosa è diventato non dico l’uomo, ma la storia, la terra, il sistema solare? Eppure io debbo credere che Nostro Signore debba conoscere anche me, pover’uomo. Dio mi conosce e mi ama, Dio che è l’Infinito, Dio che è il creatore degli astri. Credere diviene sempre più difficile, ma è una cosa bella che si debba crescere e sapere che la fede rimane un dono di Dio. Così la speranza. Si va sulla luna, ma intanto non sappiamo nemmeno se fra cinquant’anni l’atmosfera sarà tale da consentire di respirare in santa pace senza restare avvelenati. Tutto sembra crollare intorno a me e poi la morte, e poi il peccato: dov’è per me la possibilità di sperare? Questo peccato che inonda, che allaga la terra, e poi la morte… come faccio a sperare? È proprio per questo che debbo sperare, perché mi manca tutto.

In un apologo buddhista si narra di uno che, precipitando in un burrone, riesce ad aggrapparsi alla radice di un albero e, mentre è lì sospeso sul baratro, vede due topi che rosicchiano la radice. Tale e quale sono io, ma so che le mani di Dio mi tengono su. La radice può essere anche rosicchiata, ma è Lui che mi regge: ecco la speranza, Lui che mi regge, però non vedi le radici. È una speranza che sembra, umanamente parlando, nulla, perché ti devi fidare di un Dio che tace, di un Dio che sembra irreale. Eppure la tua speranza è tanto più vera, quanto più ti mancano motivi umani, perché allora la tua speranza poggia unicamente su Dio.

Ritiro a Casa San Sergio (FI), 12 giugno 1988

Responsabili di tutti i peccati (1980)

Tu puoi essere – e lo sei – il peccato vivente; tu sei responsabile di tutti i peccati del mondo, solidale con tutto il peccato umano; ed è nella misura che realizzi questo che puoi vivere la santità stessa del Cristo.

Non nella misura che ti senti già santa, dato che hai commesso soltanto qualche atto d’impazienza o ti sei semplicemente distratta nella preghiera; per questo fatto sei sul piano dei farisei che pensavano che la grazia divina non fosse altro che un far sì che Dio fosse un tuo debitore. Pretendere che l’uomo abbia dei diritti di fronte a Dio è negare l’amore.

Ora è precisamente questo che a noi cattolici impedisce di essere santi; è questa pretesa stupida e assurda di credere che l’uomo abbia dei diritti davanti a Dio. L’uomo è soltanto colui che è amato ed è amato per nulla; e amato in tal modo che veramente l’amore vince in lui non soltanto il peccato realmente commesso, ma anche la capacità stessa di peccare che è uguale per tutti ed è la possibilità di poter arrivare a commettere tutti i peccati. Se non senti che in te è stato perdonato ogni peccato di adulterio, di assassinio, ecc., tu non vivi l’amore di Dio, perché pretendi di portare davanti a Dio la tua bella faccia, quasi fosse tuo merito se non sei caduta in qualche peccato; quasi fosse tuo merito, indipendentemente dalla grazia divina, il fatto di non essere una adultera, un’assassina, ecc. In ognuno di noi Dio perdona tutti i peccati, ma li perdona nella misura che ne siamo consapevoli.

(…) Vi ho detto altre volte che ciascuno di noi è tutta la Chiesa, ma devo dire di più. La persona è un tale valore che in sé, in atto primo, è potenza di assumere tutta l’umanità. In ognuno di noi è tutta l’umanità. In ognuno di noi è tutta l’umanità che Egli perdona, in ognuno di noi è tutta l’umanità che Egli a sé associa. Ma se in noi è tutta l’umanità, in noi è anche tutta la potenza del peccato. Prima ancora che il Cristo si faccia solidale con tutti nell’essere l’unico uomo, tu sei l’unica sposa. Non è forse vero che il matrimonio implica non solo la indissolubilità, ma anche la monogamia? Il carattere della monogamia e della indissolubilità non sono propri soltanto del matrimonio umano. Sono propri del matrimonio umano perché prima di tutto sono note caratteristiche di questa unione di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Come Egli è l’”Unico” uomo («Ecce Homo»!; Gv 19, 5), il nuovo Adamo, così ciascuno di noi realizza la propria vocazione cristiana nella misura che è tutta la Chiesa, nella misura che è tutta l’umanità, nella misura che ciascuno di noi si sente responsabile di tutti i peccati per esser perdonato da Lui.

Ma la misericordia divina è tale che realmente ti fa santa della sua santità; non di un’altra santità, ma della sua santità. Nella misura che ti ama, Egli in te depone il suo amore. Nella misura che ti ama e tu accetti di essere amata e perciò credi al suo amore, Egli vive in te e in te non vive che la sua santità.

Ecco la santità di Maria. La vocazione cristiana è stata realizzata in un modo pieno soltanto dalla Vergine; non perché la Vergine sia diversa da noi, ma perché ha creduto all’amore mentre noi non ci crediamo. «Beata tu che hai creduto!» (cfr. Lc 1, 45). La beatitudine di Maria è soltanto in questo credere all’amore di Dio che Ella ha vissuto sino in fondo. Tu non ci credi, io non ci credo, san Paolo non ci ha creduto, san Pietro non ci ha creduto: nessuno ci ha creduto come la Vergine. Per questo solo la Vergine ha realizzato sino in fondo questa vocazione ed è santa. Ma nella misura che ciascuno ci crede, realizza questa vocazione ed è santo. Santo di una santità minore della Madonna, ma non per questo meno reale, perché la fede nell’amore di Dio non raggiunge la purezza, la semplicità, l’universalità della fede della Vergine pura. Ma proprio perché la sua fede è piena, proprio per questo in Lei è stato rimesso ogni peccato. Tutto il peccato umano è stato in lei rimesso prima ancora che lo contraesse; ed è per questo che Ella è il rifugio dei peccatori, la prima perdonata, colei che – come dice la Bolla Ineffabilis – è «sublimiori modo redempta».

 

Esercizi ad Arliano (LU), 13-17 giugno 1980

 

La pena più grave (1984)

La Chiesa è la sposa e anche ciascuno di noi è la sposa, perché ciascuno di noi è tutta la Chiesa. Dice san Pier Damiani: In pluribus una, una in tutti, ma anche in singulis tota, tutta in ciascuno. Io sono tutta la Chiesa e ognuna di voi è tutta la Chiesa, nella misura in cui si realizza la nostra vocazione alla santità.

E che cosa vuol dire essere tutta la Chiesa? Che cosa dà l’umanità al Cristo? La morte, i peccati. Che cosa dà il Cristo a noi? La sua vita divina, il suo Spirito.

Che cosa dobbiamo portare al Cristo? Non solo il nostro peccato, ma il peccato di tutta l’umanità. Sentiamoci responsabili di tutto il peccato del mondo per offrirlo a Lui e ottenere per tutti misericordia e perdono. Quella misericordia che vogliamo per noi, non possiamo dividerla dalla misericordia che dobbiamo volere per gli altri, per tutti.

(…) Noi tutti dobbiamo sentirci impegnati a vivere questa corredenzione, assumendo sopra di noi, insieme a Gesù, il peso del peccato del mondo. Peso che Gesù in qualche modo riceve da noi, sia perché noi siamo peccatori in atto, sia perché anche il peccato che non abbiamo commesso è in certo modo nostro per il fatto che siamo una sola cosa con tutti. Non possiamo dividerci dagli altri. Pertanto è il peccato di tutti che, attraverso di noi, viene ad essere assunto dal Cristo.

Ecco che cosa vuol dire vivere la dimensione ecclesiale dell’Eucaristia: vuol dire vivere questa solidarietà col peccato umano.

È impressionante la preghiera di Gregorio di Narek in cui egli si accusa, per pagine e pagine, dei peccati più gravi: stupri, assassini, adulteri, sacrilegi innumerevoli. Si rimane senza fiato! Eppure non possiamo dividerci da alcuno. Divenendo la sposa del Cristo, per l’Eucaristia ognuno di noi diviene tutta l’umanità che Egli chiama di nuovo all’unione con Lui.

(…) È questa solidarietà che la Comunione deve sviluppare in noi dandoci il senso del peccato universale, per portarlo a Cristo, perché Lui lo vuole da ciascuno di noi. Dobbiamo sentirci coperti, oppressi dalla responsabilità del peccato universale, perché, in noi che Egli ama, questo peccato sia redento, sia cancellato e in noi Dio usi misericordia a tutti. Perché noi siamo tutti.

(…) Santa Teresa di Gesù Bambino, assumendo il peccato del suo tempo, l’incredulità, deve vivere l’angoscia terribile della mancanza di fede, quasi Dio non fosse più. Lei stessa dice infatti di non credere più. Usa proprio questa espressione. Certamente credeva, se no, chi la faceva stare lì, chi le faceva vivere quella vita di preghiera? Però era come se non credesse, tanta era la sua pena, tanta era l’angoscia. Il peccato del mondo gravava su di lei con i suoi effetti, col senso dell’irrealtà del mondo divino.

È la pena più grave che un’anima possa soffrire. Ma è proprio questa la purificazione che Dio oggi chiede alle anime. Santa Teresa di Gesù non l’ha conosciuta, e nemmeno san Giovanni della Croce, mentre santa Teresa di Gesù Bambino, vissuta in un tempo in cui l’incredulità avanza, deve vivere questo senso dell’assenza di Dio, questo senso della morte di Dio, per usare il linguaggio proprio di certa teologia moderna.

E anche voi, nella misura in cui vivete la vostra unione nuziale col Cristo, vivrete questo dramma perché il peccato del mondo deve pesare su di voi, non in quanto voi lo commettete, ma in quanto dovete portarne il castigo: l’abbandono del Padre. Sentirsi come sospese nel vuoto, sentire inutile, forse assurda, la propria vita è la pena che possono provare le anime religiose di oggi e che non provavano quelle di cento anni fa.

Chi ci farà resistere? (…) La grazia di Dio. Questa grazia farà vivere anche a voi la morte, perché l’unione col Cristo si realizza nella sua morte. Il talamo delle nozze con Lui è la Croce, nella quale ci si distende come Lui ci si è disteso. Forse non è troppo piacevole, però è così che si ama!

È in questa morte che veramente l’anima vive l’unione, perché è nella morte che si dona al Cristo quello che si è, quello che si ha. E il Cristo ci dona quello che Egli è: l’Amore.

Spiritualità carmelitana e sacramenti, II ediz., pp. 208-214

Credere nell’amore di Dio (1958)

Dio non ci chiede che questo: che noi veramente crediamo. Non è certo una cosa facile credere a questo amore, perché siamo sempre portati naturalmente a pensare che l’amore sia interessato, non sia un amore gratuito quello di Dio. Vorremmo giustificare Dio ad amarci precisamente nel cercare in noi, nel trovare in noi qualche cosa che attiri tanta Sua benevolenza. Siccome in noi non troviamo nulla che attiri questo amore infinito, per questo ci rimane estremamente difficile credere che Egli ci ami. Ma proprio qui, appunto, è la corrispondenza nostra all’amore Suo: che noi veramente crediamo, crediamo nonostante le apparenze, crediamo nonostante le nostre difficoltà, crediamo nonostante che la nostra vita sia così scialba, così misera, nonostante che noi siamo così poveri e imperfetti. Credere: ecco l’atto supremo della nostra risposta all’amore di Dio. Perché, in fondo, grande anche nella nostra corrispondenza non può essere che Lui, e Lui è grande precisamente nell’atto della nostra fede, perché è l’atto della nostra fede che misura precisamente il dono di questo amore infinito all’anima nostra. Noi siamo grandi per quello che Egli vive in noi ed Egli vive soltanto nella capacità che offriamo a Lui di vivere in noi attraverso la nostra fede. Perché il dono di Dio non è misurato in Lui che ama; è misurato da noi che siamo amati, e la misura che offriamo a Dio è precisamente la nostra fede.

(…) Anche se noi fossimo caduti nei peggiori peccati, rimane per noi, non soltanto l’obbligo di credere, ma più che l’obbligo la gioia di dover credere all’amore di Dio, perché la gratuità dell’amore divino non si smentisce. Egli ama chiunque, Egli ama tutti, e tutti ricevono l’amore, non secondo quello che essi sono, ma secondo la fede che hanno in questo amore divino. Per questo un peccatore può essere veramente più santo di un galantuomo, di un santo, di uno che si dice comunemente santo perché magari è perfetto in tutte le sue azioni. Perché può essere più santo? È naturale: perché la santità nostra non è altro che la presenza di Dio nell’anima, e Dio non si fa presente che nella fede di colui che accoglie il dono divino. Per questo un peccatore, una peccatrice pubblica, può essere immediatamente santa se accoglie questo dono. E una che vive invece sempre nella cura meticolosa di una propria sua virtù può essere del tutto estranea alla vita divina.

Maria Maddalena (notate bene, questa è una grande verità che il Vangelo ci insegna) è colei nella quale inizia il nuovo ordine della santità dopo il peccato. E Maddalena è colei che – peccatrice – si getta ai piedi di Gesù ed è sollevata da Gesù e presentata anche al fariseo Simone come l’esempio di un’anima che ha molto amato. Immediato il passaggio, perché per essere santi non abbiamo bisogno di cinquant’anni; basta che noi accogliamo Dio, perché Lui solo è santo, perché grande non è e non rimane nell’anima che Dio, e Dio vive nell’anima nella misura che lo lasciamo vivere, che lo lasciamo entrare, nella misura che lo lasciamo venire e riempire di Sé tutto l’essere nostro. 

Dal Ritiro a Venezia del 26 dicembre 1958

La gioia è la legge del cristiano (1962)

La legge cristiana, i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa, tutti si adempiono nel fatto stesso che abbiamo la gioia cristiana, la gioia che deriva dal possesso di Dio, la gioia che deriva dal fatto che non soltanto siamo amati e crediamo all’amore, ma a quest’amore rispondiamo donandoci totalmente al Signore. «Beati»: ecco la prima parola che Gesù ha detto nel Sermone della Montagna (cfr. Mt 5, 2).

La gioia è un dovere per il cristiano. E infatti le Beatitudini nel Vangelo di san Matteo rispondono al Decalogo del Libro dell’Esodo. La prima alleanza fatta fra Dio e il popolo di Israele veniva ratificata nel dono della Legge e nell’accettazione da parte d’Israele di questa divina volontà. Il dono della Legge, anche oggi, per l’Ebraismo è tutto: il Decalogo. È questo che distingue la grandezza dell’elezione d’Israele; Dio ha parlato ad Israele, gli ha proclamato la sua volontà. La Nuova Alleanza ugualmente inizia con la legge, ma la legge della Nuova Alleanza sono le Beatitudini.

Al dono della Legge nell’Esodo rispondono le Beatitudini nel Nuovo Testamento. Ora, se vi è una rispondenza fra il Decalogo e le Beatitudini, noi comprendiamo come effettivamente l’unica legge del cristiano non può essere che la gioia, dal momento che tutte le Beatitudini iniziano sempre con la stessa parola. Dobbiamo essere beati perché poveri, dobbiamo essere beati perché miti, dobbiamo essere beati perché puri di cuore, perseguitati: comunque, sempre beati.

Come nell’Antico Testamento la legge era una legge negativa – iniziava sempre col «Non fare» (Non uccidere, non ammazzare, non fare adulterio, non desiderare) -, nel Nuovo Testamento è «Fare». È fare il massimo, perché la vita di ogni essere creato trova il suo compimento, trova la sua perfezione nella beatitudine. Quello che il Cristianesimo ti impone non è soltanto di essere perfetto, ma di essere beato nella tua perfezione, perché precisamente la perfezione non può essere distinta dalla tua felicità. Ecco dunque la legge cristiana: l’essere contenti, l’esser beati. Ma giustamente la beatitudine suppone la perfezione, e la perfezione che cos’è? È la presenza di Dio nel tuo cuore, è il vivere la vita stessa di Dio: e Dio si dona a ciascuno. Che l’anima divenga consapevole di questo dono che ha ricevuto: nella misura che ne sarà consapevole, nella misura che veramente crederà in questo dono, nella stessa misura avrà la percezione vera, sperimentale, di questo possesso nella sua gioia.

Non vi lasciate affascinare dalle cose. Noi tutti siamo di fronte alle cose umane come gli antichi di fronte alla Medusa: rimanevano pietrificati. E noi stessi rimaniamo pietrificati e non abbiamo più la capacità di credere, di andare fino a Dio, di realizzare che nulla e nessuno potrebbe mai toglierci quella che è la massima nostra ricchezza, questa presenza di Dio nel nostro medesimo cuore. Non ti turbare per nulla: renditi conto che ogni turbamento, ogni ansietà in fondo dipende da questa paralisi che operano le cose in te. Le cose hanno un potere affascinatore; non soltanto ti strappano a Dio, ma ti paralizzano, ti impediscono di accedere a Lui, ti impediscono di avere una vera esperienza di quella che è la tua vera ricchezza, Dio stesso. Qualunque cosa avvenisse, se c’è qualche cosa in noi che non va, tanto meglio! Non dobbiamo legare la nostra felicità, la nostra pace a noi stessi, ma a qualche cosa che è al di là di tutto quello che il tempo rode, come dice il Vangelo, e che le creature ci possono rapire (cfr. Mt 6, 19).

Dal Ritiro del 1° Novembre 1962 a Palermo

La legge della gioia (1959)

Se la gioia è la legge fondamentale del cristiano, lo è perché la gioia implica prima di tutto l’amore. Giustamente si è visto sempre un legame fra l’amore e la felicità: chi sposa pensa che il giorno delle sue nozze sia il giorno più bello della sua vita. Effettivamente nell’amore anche umano l’uomo trova la sua completezza e nella sua perfezione naturale trova precisamente il compimento dei suoi desideri, la risposta della natura alle proprie esigenze, ai bisogni non solo dell’anima ma perfino del corpo. Tutto trova il suo compimento in quest’unione nuziale e l’unione nuziale non è che il frutto dell’amore. Amore e gioia sembrano andare d’accordo. La gioia è il frutto dell’amore; perciò anche la gioia implica l’amore. Nessuno potrà dunque possedere la gioia che non sia libero da ogni egoismo.

Se noi vogliamo possedere la gioia bisogna dunque liberarci da noi stessi. Ecco la prima esperienza. Bisogna vincere ogni egoismo che ci chiuda in noi stessi e faccia convergere a noi e attiri a noi le cose.

Ma se la gioia implica l’amore, esige a sua volta la vittoria sull’egoismo, implica l’oblio di se stessi. Nessuno che si chiuda in sé può possedere la gioia. È nel puro dono di sé piuttosto che l’anima trova la gioia. Ma il dono di sé a sua volta implica sacrificio. Non è dunque vero che il sacrificio sia contrario alla gioia. Non è dunque vero che la morte a se stessi sia veramente la fine della gioia: è anzi la porta che si apre all’infinita beatitudine, alla pienezza della pace, perché è anche la porta dell’amore.

Di qui deriva che se uno vuol possedere la gioia bisogna che non abbia paura della sofferenza. Può parere che questo linguaggio sia paradossale, sia contraddittorio; e invece nulla di più giusto, nulla di più naturale; non solo di più giusto e di più naturale, ma di più necessario. Veramente la gioia è un fiore che sboccia sul sacrificio. La gioia è veramente una partecipazione a una resurrezione che suppone la morte. Non aver paura della sofferenza: ecco un’esigenza della gioia. Esser disponibili alla sofferenza, esser disposti alla sofferenza. Proprio per possedere la purezza della gioia, proprio perché la gioia rimanga pura, incontaminata, proprio perché la gioia non possa essere turbata, non possa conoscere il pericolo di una sottrazione, il pericolo di una rovina, di uno smarrimento.

Ma se la gioia implica l’amore, se implica il dono di sé, se è frutto del dono di noi stessi che è sacrificio, un’altra conseguenza ne viene: la gioia più pura non è mai nell’assenza del dolore. È nella presenza stessa della sofferenza che l’anima ne gode. Paradosso cristiano, ma anche esperienza di vita. Colui che ha posseduto la gioia più pura è colui che è stato il più mortificato. Non solo beati i poveri di spirito, ma beati i perseguitati (cfr. Mt 5, 10). Ricordiamocelo, perché dobbiamo viverlo, l’insegnamento evangelico! Non dobbiamo farne argomento di accademia, di bei discorsi. Dobbiamo viverlo; e l’insegnamento evangelico è questo: la gloria della resurrezione, la gioia pasquale, è il frutto della morte.

(…) Temiamo quando la gioia non ci chiede nulla! È una gioia di per sé contaminata, forse; è una gioia equivoca, forse non cristiana, anche quando viviamo nelle dolcezze dell’orazione. Non è la pura gioia cristiana. Purezza della gioia che fiorisce nell’umiltà! Pienezza della gioia che è frutto del sacrificio! Immutabilità di una gioia che è il segno della presenza, anche, della povertà, dell’umiltà e della morte. Non temiamo il dolore: ecco cosa vuol dire avere per legge la gioia. Affidiamoci, abbandoniamoci alla sofferenza: ecco che cosa vuol dire avere per legge la gioia.

Ritiro a Settignano (FI) del 18 ottobre 1959

Apertura senza confini (1961)

Siamo invitati alle nozze (cfr. Mt 22, 1-14); tutti sono invitati alle nozze. Non vi è uomo che non sia elevato all’ordine soprannaturale, non vi è uomo che non sia chiamato alla beatitudine eterna. È dottrina di fede per noi cattolici che la volontà di Dio è una volontà di universale salvezza.

Dio sinceramente vuole la salvezza di tutti e a tutti perciò appresta i mezzi per poter giungere là dove Egli li chiama (…). Pur consapevoli di essere nella vera fede, pur consapevoli della verità del Cristianesimo, non possiamo mai dividerci da alcuno. La nostra separazione da una sola anima è una separazione da Cristo. Non siamo tenuti a fare la separazione; è Dio che la farà, e sono gli uomini in quanto non rispondono a Dio, alla loro vocazione divina.

È certo che, consapevoli della verità del Cristianesimo, consapevoli della verità della Chiesa cristiana, noi non possiamo accomunare ogni confessione religiosa degli uomini, ma il fatto che vi siano diverse confessioni religiose non ci autorizza mai a sentire un fratello, a sentire un uomo separato da noi, diviso da noi, a qualunque confessione appartenga: perché tu non sai se attraverso quella confessione, o nonostante quella confessione, egli non viva come te nel seno della Chiesa madre e non viva come te nella famiglia dei figli di Dio. Tu non lo sai. Vi è dunque qualche cosa in comune in ogni uomo, non soltanto perché chiamato alla grazia ma anche perché questa chiamata è efficace, anche perché in ogni vita religiosa umana io debbo riscontrare qualcosa di un’azione di Dio che efficacemente opera la salvezza di tutti coloro che volontariamente, coscientemente non si oppongono a questa azione segreta. Non solo tutti siamo chiamati al Cielo ma in tutti lavora l’azione di Dio, in tutti l’azione della grazia opera in vista di questa città futura che tutti ci adunerà in Cristo Signore e di tutti noi farà un solo corpo e a tutti noi darà una medesima vita.

Con quale rispetto dunque e con quale amore ciascuno di noi deve avvicinarsi ad ogni uomo! Non solo perché, depositario di una dottrina di verità, partecipe di una grazia divina, egli deve comunicare questa verità e questa grazia attraverso tutta la sua vita, oltre che un suo ministero, agli altri fratelli, poiché ogni uomo è sacramento per l’altro uomo; non solo per questo dobbiamo avvicinarci ad ogni fratello, ma dobbiamo avvicinarci con venerazione ad ogni fratello perché in ogni fratello dobbiamo saper riconoscere il Cristo: non tanto per una vocazione che egli ha certamente alla salvezza, quanto perché non sei tu che puoi determinare riguardo a nessuno che egli è separato da Cristo, che egli non appartiene perciò alla famiglia dei figli di Dio. Con quale rispetto tu devi avvicinare ogni anima per avvertire in ogni anima il mistero di un Dio che si comunica all’uomo, di un Dio che ci ama e nel modo più misterioso e segreto lavora nell’intimo del cuore di ognuno per fare ciascuno di noi un degno figlio di Dio, una degna abitazione dello Spirito divino!

(…) Come è bello e come è consolante saper riconoscere l’azione segreta di Dio in tutte le anime, in tutto questo universo, in tutta questa umanità! Come dobbiamo non rifiutare a priori che Dio agisca anche in quelle anime che sono affidate a dottrine, a movimenti non direttamente religiosi ma che tuttavia usurpano, si appropriano quanto è proprio della religione, imponendosi alle anime come qualcosa di assoluto, esigendo dagli uomini un servizio totale!

(…) Uno che immediatamente rifiuta, respinge, si salva più facilmente, si difende più facilmente contro dottrine estranee, contrarie; uno che rifiuta, che respinge, più facilmente protegge la propria verità nei confronti degli altri. Ma questo poteva essere l’atteggiamento dell’antico Israele, per il quale l’amore, la carità si rivolge prima di tutto al correligionario oppure al conterraneo oppure al proselita. Non vi è nell’Antico Testamento un comando che prescriva l’odio ai nemici, è vero; ma pure Nostro Signore può dire: «Vi è stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (cfr. Mt 5, 43). Gesù poteva dire queste parole, quantunque non vi sia nell’Antico Testamento il comando di odiare il proprio nemico. Ma Gesù poteva dirle perché effettivamente tutta la morale dell’Antico Testamento tende a separare l’Israelita dagli altri popoli, tende a farlo consapevole di una divisione dalle altre nazioni abbandonate da Dio, non elette da Lui.

Per te cristiano questo non può esser più vero. Il tuo amore non può conoscere confini, il tuo amore, se è vero amore, non può essere soltanto in te desiderio e volontà di donarti: è anche volontà di ricevere.

Adunanza del 1° ottobre 1961 a Firenze