sabato, Settembre 23, 2023

Dov’è carità e amore, qui c’è Dio

La vita dei cristiani è una vita che deriva da una sola sorgente, da un solo principio “quasi formale”; lo Spirito Santo che vive in tutti noi perciò deve manifestare sempre più l’unità ontologica che è propria dell’essere nostro. Lo Spirito Santo non soltanto unifica le potenze dell’uomo, unifica gli uomini fra di loro in una Chiesa unica che è il corpo di Cristo, ma questa unità che è di tutta la Chiesa deve rivelarsi nell’attività sua propria. Se lo Spirito Santo ha creato una comunità cristiana, la comunità cristiana ora deve manifestare questa unità.

Come? Nell’amore, in un amore fraterno che dona a tutti gli stessi sentimenti, gli stessi pensieri, in un amore fraterno che fa sì che l’amore dell’uno prevenga l’altro, sia un amore preveniente, un amore per il quale ognuno è a servizio dell’altro. Sia dunque un amore vicendevole che si traduce nell’umiltà, nella benignità, nella pazienza, un amore che mai opprime, che mai possiede, ma invece si dona. Quando il dono è reciproco realizza davvero l’unità, perché se io donassi soltanto senza ricevere, io mi perderei; è vero che donando senza nulla ricevere, riceviamo sempre Dio; comunque non ricevendo mai nulla dalla comunità non si creerebbe veramente l’unità tra i fratelli, che si realizza nella misura in cui l’amore è reciproco; io mi dono e l’altro ugualmente si dona e io vivo nell’altro e l’altro vive in me. Ma tutto questo può avvenire a una condizione: che il nostro amore si incarni come l’amore del Cristo nell’obbedienza, nell’umiltà, nella pazienza, che sono il vero volto dell’amore cristiano.

Ecco perché nel capitolo XIII della Prima Lettera ai Corinzi Paolo dice che la carità è benigna, è longanime, è paziente, che la carità tutto sopporta, tutto spera; è una carità che non è mai vinta da alcuna cosa perché mai nulla aspetta, perché non è mai una risposta all’amore dell’altro; se fosse una risposta all’amore dell’altro sarebbe anche misurata dall’amore dell’altro e dal valore dell’altro; invece è misurata soltanto da Dio, che vive in te, dalla possibilità che dai a Dio di vivere in te.

Amore paziente, benigno, longanime, umile – come dice san Pietro -, un amore che non risponde all’ingiuria con l’ingiuria, ma nemmeno risponde con una benedizione alla benedizione dell’altro, perché l’amore che previene è sempre un amore gratuito: io non amo perché l’altro mi ama, amo perché amo come Dio, e proprio perché non aspetto nulla non può mai venire meno il mio amore per l’altro e non può nemmeno esservi una reazione contraria all’amore, se da parte dell’altro ricevo ingiuria. Come l’amore di Dio è una pura effusione di luce senza fine verso tutti, noi siamo stati chiamati a questo: a vivere l’eredità dei santi e l’eredità dei santi è Dio stesso. Dio che vive nel tuo cuore e Dio altro non è che l’amore.

(…) Questa vita composta in unità e nella pace è una vita in cui è presente Dio stesso; gli occhi di Dio riposano così sopra il giusto ed Egli ascolta le loro preghiere, cioè la vita dell’uomo non è più una semplice vita umana, è già il segno, il sacramento di una presenza del Cristo fra gli uomini, perché là dove regna l’amore, là dove si stabilisce la pace, quivi Dio è presente: dov’è carità e amore, qui c’è Dio. L’insegnamento ultimo di questa catechesi sembra precisamente questo: una vita di pace, di serenità, di benevolenza è già il sacramento di una divina presenza; i cristiani, già in questa vita, realizzano e danno agli altri la testimonianza di una presenza di Dio ed essi stessi vivono in questa divina presenza la gioia di una intimità divina, la gioia di una comunione che trascende il tempo e le cose; anzi, in questa comunione con gli uomini, l’uomo comunica già con l’Assoluto, l’uomo comunica con Dio.

Commento alla Prima Lettera di Pietro, pp. 94-97

Apertura senza confini (1961)

Siamo invitati alle nozze (cfr. Mt 22, 1-14); tutti sono invitati alle nozze. Non vi è uomo che non sia elevato all’ordine soprannaturale, non vi è uomo che non sia chiamato alla beatitudine eterna. È dottrina di fede per noi cattolici che la volontà di Dio è una volontà di universale salvezza.

Dio sinceramente vuole la salvezza di tutti e a tutti perciò appresta i mezzi per poter giungere là dove Egli li chiama (…). Pur consapevoli di essere nella vera fede, pur consapevoli della verità del Cristianesimo, non possiamo mai dividerci da alcuno. La nostra separazione da una sola anima è una separazione da Cristo. Non siamo tenuti a fare la separazione; è Dio che la farà, e sono gli uomini in quanto non rispondono a Dio, alla loro vocazione divina.

È certo che, consapevoli della verità del Cristianesimo, consapevoli della verità della Chiesa cristiana, noi non possiamo accomunare ogni confessione religiosa degli uomini, ma il fatto che vi siano diverse confessioni religiose non ci autorizza mai a sentire un fratello, a sentire un uomo separato da noi, diviso da noi, a qualunque confessione appartenga: perché tu non sai se attraverso quella confessione, o nonostante quella confessione, egli non viva come te nel seno della Chiesa madre e non viva come te nella famiglia dei figli di Dio. Tu non lo sai. Vi è dunque qualche cosa in comune in ogni uomo, non soltanto perché chiamato alla grazia ma anche perché questa chiamata è efficace, anche perché in ogni vita religiosa umana io debbo riscontrare qualcosa di un’azione di Dio che efficacemente opera la salvezza di tutti coloro che volontariamente, coscientemente non si oppongono a questa azione segreta. Non solo tutti siamo chiamati al Cielo ma in tutti lavora l’azione di Dio, in tutti l’azione della grazia opera in vista di questa città futura che tutti ci adunerà in Cristo Signore e di tutti noi farà un solo corpo e a tutti noi darà una medesima vita.

Con quale rispetto dunque e con quale amore ciascuno di noi deve avvicinarsi ad ogni uomo! Non solo perché, depositario di una dottrina di verità, partecipe di una grazia divina, egli deve comunicare questa verità e questa grazia attraverso tutta la sua vita, oltre che un suo ministero, agli altri fratelli, poiché ogni uomo è sacramento per l’altro uomo; non solo per questo dobbiamo avvicinarci ad ogni fratello, ma dobbiamo avvicinarci con venerazione ad ogni fratello perché in ogni fratello dobbiamo saper riconoscere il Cristo: non tanto per una vocazione che egli ha certamente alla salvezza, quanto perché non sei tu che puoi determinare riguardo a nessuno che egli è separato da Cristo, che egli non appartiene perciò alla famiglia dei figli di Dio. Con quale rispetto tu devi avvicinare ogni anima per avvertire in ogni anima il mistero di un Dio che si comunica all’uomo, di un Dio che ci ama e nel modo più misterioso e segreto lavora nell’intimo del cuore di ognuno per fare ciascuno di noi un degno figlio di Dio, una degna abitazione dello Spirito divino!

(…) Come è bello e come è consolante saper riconoscere l’azione segreta di Dio in tutte le anime, in tutto questo universo, in tutta questa umanità! Come dobbiamo non rifiutare a priori che Dio agisca anche in quelle anime che sono affidate a dottrine, a movimenti non direttamente religiosi ma che tuttavia usurpano, si appropriano quanto è proprio della religione, imponendosi alle anime come qualcosa di assoluto, esigendo dagli uomini un servizio totale!

(…) Uno che immediatamente rifiuta, respinge, si salva più facilmente, si difende più facilmente contro dottrine estranee, contrarie; uno che rifiuta, che respinge, più facilmente protegge la propria verità nei confronti degli altri. Ma questo poteva essere l’atteggiamento dell’antico Israele, per il quale l’amore, la carità si rivolge prima di tutto al correligionario oppure al conterraneo oppure al proselita. Non vi è nell’Antico Testamento un comando che prescriva l’odio ai nemici, è vero; ma pure Nostro Signore può dire: «Vi è stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (cfr. Mt 5, 43). Gesù poteva dire queste parole, quantunque non vi sia nell’Antico Testamento il comando di odiare il proprio nemico. Ma Gesù poteva dirle perché effettivamente tutta la morale dell’Antico Testamento tende a separare l’Israelita dagli altri popoli, tende a farlo consapevole di una divisione dalle altre nazioni abbandonate da Dio, non elette da Lui.

Per te cristiano questo non può esser più vero. Il tuo amore non può conoscere confini, il tuo amore, se è vero amore, non può essere soltanto in te desiderio e volontà di donarti: è anche volontà di ricevere.

Adunanza del 1° ottobre 1961 a Firenze

L’esigenza di conoscerci e di amarci (1980)

Vorrei semplicemente pensare, insieme a voi, che cosa abbia voluto dire lo stare insieme in questi giorni. Abbiamo ascoltato Dio, ma lo abbiamo ascoltato insieme; abbiamo fatto gli esercizi, e questi non solo ci hanno legato ancora di più a Dio, ma ci hanno legato maggiormente anche fra noi. È evidente che la risposta dell’anima al Signore che ci unisce più intimamente a Sé non può dividersi da una unione più intima che la grazia deve realizzare fra noi. Di fatto ogni volta che l’anima, prendendo coscienza di sé, risponde al Signore, questa risposta la si riconosce come autentica nell’amore dei fratelli che è il segno di quella. Ne deriva che da ogni corso di esercizi la Comunità rimane rafforzata e in qualche misura ne viene nuovamente fondata. Di qui non solo un dovere e un bisogno maggiore di amare Dio, ma anche un dovere e un bisogno maggiore di essere uniti fra noi.

Ci siamo incontrati con Dio, ma io mi sono incontrato con Dio anche quando stamani parlavo con uno di voi. Mi sono incontrato con Dio proprio nell’incontrarmi con ciascuno di voi, nell’imprimere sempre più profondamente in me non solo l’immagine fisica di ciascuno di voi (anche questo è importante dal momento che siamo uomini), ma anche la conoscenza di quello che siete voi; perché è indubbio che non conoscerei Dio se questa conoscenza di Dio non mi desse la capacità di penetrare maggiormente la vostra anima, di conoscervi più profondamente. Come l’amore per Iddio ha la sua prova nell’amore che ci lega ai fratelli, così anche la conoscenza di Dio implica una conoscenza reale, più vera, degli altri e di tutti gli altri. La mia gioia è stata grande proprio perché vi ho conosciuto di più.

La mia vita eterna, con l’amore che porto a Dio e con la conoscenza che ho di Lui, non potrà non essere anche l’amore e la conoscenza che ho avuto di voi. Una conoscenza e un amore che allora saranno perfetti, ma che sono incominciati quaggiù, perché vi è continuità vera fra la grazia e la gloria. E se vi è continuità, questo significa che la Comunione dei Santi già si matura nel tempo. Ecco perché ogni società religiosa anticipa la vita stessa del cielo. Non la anticipa soltanto nella lode divina, non la anticipa soltanto nella preghiera, ma anche nella conoscenza reciproca di coloro che il Cristo ha unito.

Dobbiamo dunque conoscerci e amarci. È una esigenza della vita cristiana, ma è una esigenza anche più profonda della vita religiosa, perché se siamo maggiormente impegnati ad amare Dio, siamo anche maggiormente impegnati a conoscerci fra noi e a volerci bene.

Esercizi ad Arliano (LU), 13-17 giugno 1980 – Omelia di chiusura

Farsi pane…per essere mangiati (1970)

La Comunità è una; così dobbiamo realizzare sempre di più che siamo uno (…). Come dobbiamo sentirci uno per vivere questa unità! Quanti siamo in Comunità? Uno, siamo Cristo; se siamo due è già la fine della Comunità. La Comunità allora si può dire reale quando ha la percezione viva di questa unità in cui Dio la raccoglie. Certo, siamo anche trecento, perché l’unità di un solo corpo, di un solo spirito non esclude la distinzione delle persone. Se escludesse la distinzione delle persone, escluderebbe lo stesso amore.

L’unità ontologica, fondata sull’unità di natura, non esclude la distinzione delle persone, anzi in questa unità di natura le persone si affermano in quanto amano, si amano fra loro, in quanto le persone, sussistendo in questa natura una, vivono una relazione totale di amore all’altra persona, ed è proprio questo che realizza l’unità. Questo vuol dire che ciascuno di noi realizza la sua persona come relazione pura d’amore alle altre persone. Io non sono che un dono di amore per tutti voi: dovete mangiarmi a colazione, a mezzogiorno e a cena. Non so se sarò indigesto, ma dovete mangiarmi sempre, non dovete lasciarmi più nemmeno un minuto di tempo, un affetto solo, un pensiero solo che non sia per voi. Lo dicevo a Firenze: ho capito che io non devo evadere più dalla Comunità, nemmeno per essere amico di monsignor Bartoletti o del cardinale Pellegrino.

Io debbo vivere per la Comunità fino in fondo, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo minuto della mia vita, senza sottrarvi più nulla perché io non sono che amore verso di voi: verso ciascuno in particolare, verso tutti in generale, senza escludere nulla. Tutto per voi, solo e unicamente per voi. Ma anche per voi è lo stesso! Altrettanto voi dovete vivere totalmente per gli altri, per tutti quelli della Comunità così da non sottrarre nulla. Essere a disposizione, essere totalmente mangiati l’uno dall’altro come ha fatto nostro Signore. Che cosa vuol dire per nostro Signore essere puro rapporto di amore agli uomini, Egli che è il Salvatore del mondo? Farsi pane per essere mangiato, e così ciascuno di noi dovrà farsi pane per essere mangiato. Non vivere che per donarsi, non vivere che il dono di sé agli altri e sentire che, quando non siamo mangiati, quello che ci rimane imputridisce, è perduto. Noi siamo soltanto se siamo amore; Dio è ed è l’Amore. Essere vuol dire amare; così noi non siamo, non realizziamo noi stessi come persone che in quanto siamo amore. Amore che è dono di noi stessi senza fine, senza misura, senza nulla trattenere per noi.

Questo certo ciascuno di voi lo deve vivere anche per i suoi, ma anche per la Comunità; proprio per questo io ho sempre detto che quando entra una madre, entrano anche i figlioli nella Comunità, che quando entra un marito entra la moglie, perché non possono dividersi! Il vostro dono al marito, il vostro dono ai figli è il modo di rispondere al vostro impegno religioso, non è più soltanto un fatto di natura; è veramente una risposta alla vostra Consacrazione e vi impegna a vivere questo dono totale di voi stessi a tutti coloro che Dio ha voluto una sola cosa con Lui nella Comunità, o attraverso la Comunità.

Esercizi spirituali a Brescia, 17-20 settembre 1970

Accogliere gli altri (1959)

Come realizzare questa universalità, questa unità in noi di tutte quante le cose? Come vivere in noi la vita di tutto l’universo? (…) Dobbiamo avvicinarci agli uomini, alle creature, ai fenomeni della storia umana, a fenomeni umani di razze, di culture, di lavoro, con un’anima pronta ad accogliere, con un’anima fraterna, disposta all’amore (…).

Ora, una conoscenza di cose che almeno momentaneamente ci sono estranee, non si impone a noi soltanto in forza di un impegno religioso, si impone perché effettivamente la Provvidenza ci pone in rapporto con gli altri. La Provvidenza stessa s’incarica di saggiare la tua carità mettendoti in rapporto con persone a te estranee. Tu devi saperle accogliere, devi saperle capire, assumere in te. Andate per le strade? Che nessuno vi rimanga indifferente, che non siate soltanto degli spettatori di questo vano andare degli uomini; sappiate immedesimarvi a ciascuno che voi incontrate, con cui dovete trattare. Se sei a lavorare, le persone per le quali tu lavori non devono esser soltanto delle persone che ti danno poi un salario; devono essere per te veramente delle anime che tu assumi, di cui tu assumi la responsabilità, di cui tu cerchi di penetrare il mondo per inserirti nel loro cuore o perché essi si inseriscano in te. Superare insomma l’estraneità che la nostra mancanza di amore cerca sempre di opporre; cercar di superare quel senso di diffidenza e di difesa del nostro egoismo che ci mantiene estranei alle persone con le quali noi viviamo, con le quali noi dobbiamo trattare, che noi vediamo giorno per giorno.

Si vive spesso il nostro rapporto con gli altri con gentilezza, con discrezione, magari con bontà, ma senza questa partecipazione intima, in modo che tutta la tua gentilezza non solo non distrugge la estraneità, ma la rende ancora più fonda: tu non disturbi l’altro, l’altro non disturba te. Quant’é meglio litigare in modo davvero che gli altri entrino in te, che tu li debba digerire e gli altri debbano digerire te!

Conoscenza che importa precisamente questo fondersi insieme, questo prendersi l’un l’altro. Prima di tutto attuare questo con quelli con cui vivete insieme, vivere già con essi l’unità vera, questa conoscenza intima l’uno dell’altro; saper accettare a prendersi, saper entrare nell’anima degli altri, nella mentalità degli altri, vedere le cose con i loro occhi, amarle col loro medesimo cuore, soffrire della loro stessa sofferenza. Questo bisogna fare con quelli con cui viviamo: la Provvidenza ci ha intanto offerto questi, prima di allargare i nostri confini.

Prima, l’impegno è l’amore per quelli vicini a te, quelli che il Signore ti pone istante per istante accanto, presenti nella tua vita: i colleghi d’insegnamento, i bambini della scuola, i compagni di lavoro,… con questi creare l’unità. Poi andare più in là: anche con quelle persone con le quali occasionalmente siamo in rapporto, o anche semplicemente che incontriamo per le strade; pensate le intime pene, i problemi, i drammi che si celano in tanta gente che incontriamo per via! Ogni persona è un mondo, eppure questi mondi come spesso sono estranei l’uno all’altro! Qualche volta ci si pensa, ma con superficialità, tanto per pensarci; non avvertiamo queste ansie. Tante volte possiamo esser passati accanto a dei santi e non ce ne siamo accorti, o accanto a dei demoni e siamo rimasti indifferenti. Perché questo? Perché ci chiudiamo, ci difendiamo: come dobbiamo rimproverarci!

Ritiro a Firenze del 18 gennaio 1959

La correzione fraterna (1959)

La carità fraterna ci renda meno suscettibili fra noi, permetta di correggerci a vicenda, di dirci le cose con chiarezza. Non dobbiamo aver paura di manifestare l’uno all’altro quelle che sembrano le deficienze fraterne, i difetti e magari i peccati. La correzione fraterna è uno degli obblighi più precisi e più gravi della carità. Un’anima che per falsa carità non volesse correggere il proprio fratello già per questo medesimo fatto si separerebbe da lui; e un’anima che non volesse accettare la correzione, per questo medesimo fatto non avrebbe quella carità che è anche umiltà, quella carità che non ha nulla da difendere, quella carità che importa precisamente un superamento di ogni orgoglio, che è l’orgoglio che ci chiude, che è l’orgoglio che ci difende.

Uno dei difetti fondamentali della Comunità mi sembra che sia questo: non ci si può correggere a vicenda, non ci si può dire l’uno all’altro: guarda, in questo fai male, guarda in questo devi smettere. Non lasciate che debba essere sempre il superiore a intervenire nel correggere. La correzione del superiore indubbiamente non è scusa, ma è l’ “ultima ratio”. Anche nel Vangelo si dice: prima di tutto correggi il tuo fratello nel segreto e se il tuo fratello non ti ascolterà vai allora dalla Chiesa. Prima di tutto l’esercizio di questa carità fraterna che importa un’unità vera, reale, esige una correzione fraterna semplice, cordiale, veramente umile e sincera fra noi. Tutti abbiamo difetti: non dobbiamo pretendere che gli altri non li riconoscano. Anzi, quanto dovremmo ringraziare Dio che gli altri riconoscano i difetti nostri e loro stessi ce li manifestino, loro stessi ce li dicano! Perché ai nostri medesimi occhi molto spesso (siamo così miseri!) i nostri difetti si ammantano di speciosi pretesti per essere giustificati. Non siamo così suscettibili, non siamo così ipersensibili da non sopportare un richiamo fraterno! Credo che la carità che ci unisce si debba provare massimamente da questo.

Perché come si può dire di amare veramente i nostri fratelli quando, riconoscendo in loro qualcosa che può essere difettoso, noi non procuriamo con la nostra preghiera prima, ma anche col nostro aiuto, col nostro consiglio, con la nostra correzione, di richiamare il fratello su questi difetti perché egli possa liberarsene?

Sia però la nostra correzione tale che non dimostri in noi saccenteria od orgoglio, che non dimostri in noi la pretesa di vedere sempre bene, non ci metta al di sopra degli altri. Noi, anche se possiamo correggere, sentiamoci a nostra volta più difettosi di coloro che correggiamo, così da saper accettare noi stessi il richiamo dei fratelli. Siamo cioè veramente un cuor solo ed un’anima sola. Proprio per questo la correzione fraterna è un grande bene, perché non importa che chi corregge si ponga su un piedistallo più alto di colui che è corretto, ma veramente in questa correzione si esercita una carità che pone tutti sul medesimo piano che è espressione di una medesima vita. Proprio per questo la correzione fraterna è superiore, in efficacia e con prova di amore, alla correzione che deve fare il superiore, il padre o la madre, perché la correzione che fa il padre o la madre necessariamente riveste un altro carattere: è una correzione che suppone non una maggiore virtù nel superiore, ma suppone però una responsabilità maggiore ed esige da parte di chi è corretto una maggiore umiltà.

Ecco, vi chiedo questo, miei cari figlioli. Mi sembra che sia molto importante. Il tacere, il non volere toccare gli altri per la paura che gli altri mettano fuori – come il riccio – le spine, è segno che effettivamente la Comunità non esiste. Non vi è ancora una vera unità di amore fra noi. L’ipersensibilità di coloro che si sentono offesi, che si sentono turbati da un richiamo, è indice in fondo che queste anime si difendono contro l’amore, non vivono una medesima vita con gli altri.

Quanto dobbiamo ringraziare Dio che non siamo soltanto noi a vedere noi stessi, a esaminare noi stessi! Ma l’esame della nostra vita è fatto da cento persone che appartengono alla Comunità e sotto gli occhi delle quali si svolge la nostra vita! Quanto siamo fortunati proprio per questo! Perché, è certo, è più facile che non sfugga nulla a duecento occhi mentre è molto facile che ci sfuggano ai nostri occhi tanti difetti, perché noi tutti siamo pieni di amor proprio e cerchiamo di velare, di nascondere a noi stessi i veri motivi del nostro operare, specialmente quando questi motivi sono motivi che indicano in noi una imperfezione reale.

Chiarezza! Umiltà! Cerchiamo di essere ruvidi gli uni con gli altri: che sia veramente l’amore, un amore umile e sincero quello che ci rende aperti e più chiari. Sarà prova di vera umiltà e di vera carità se noi arriveremo a vivere questa correzione fraterna in semplicità di amore. Il risentimento, la reazione immediata di chi si sente corretto e che a sua volta condanna può essere veramente anche questo indice di quanto sia povera la virtù e la pietà dell’anima stessa. E quante sono le anime che magari credono di andare in estasi e non possono essere corrette, richiamate anche in un solo punto senza immediatamente reagire, se non esteriormente (perché hanno una bella cura di non manifestarsi quali sono) almeno interiormente, col sentire un certo risentimento verso colui o colei che l’ha richiamato!

Umiltà vera, sincera, dolcezza di rapporti fraterni. Vorrei proprio che quest’anno che incomincia facesse cadere tutte le pareti che ci nascondono gli uni agli altri, tutte le difese del nostro egoismo e del nostro orgoglio che ci impediscono di essere gli uni agli altri chiari, manifesti, aperti, come agli occhi di Dio.

Ecco, figliole, quello che mi aspetto da voi. Ecco quello che mi sembra che il Signore ci chieda. È una cosa, in fondo, che tutti sentiamo che doveva essere, ma abbiamo fatto ben poco perché in realtà esistesse quest’apertura, questa chiarezza di rapporti.

Adunanza del 6 settembre 1959 a Firenze

Contemporanei di tutte le età (1959)

 Sentire che il mondo cinese, il mondo indiano è il nostro mondo; non vivere soltanto una civiltà come nostra civiltà, ma vivere in una simpatia viva verso ogni espressione di vita, verso ogni aspirazione umana, ma riassumere in noi tutti i bisogni umani, tutte le pene umane, tutti i peccati degli uomini come nostri, come fa Gesù.

Non sentire estranei a noi nessuno, né i poveri né i ricchi, né i malati, né i carcerati, né i vescovi, né gli umili, nessuno; non sentire estranei a noi non solo gli uomini che vivono oggi, ma gli uomini che vivevano migliaia di anni fa, le civiltà antiche ormai sepolte… Migliaia e migliaia di anni sono vissuti gli uomini prima che la storia parlasse di loro! Riviviamo noi questa oscura ricerca di Dio propria di millenni e millenni di storia umana, che è caduta come nel buio, che è come sommersa nella tenebra? Riviviamo noi questa ricerca ansiosa, paurosa, dolorosa dell’uomo, di una ragione, di un senso della vita, prima che Dio chiamasse Abramo? Riviviamo noi tutto questo? Eppure ciascuno di noi deve rivivere in sé tutto il travaglio umano, tutta la storia umana. Nel nostro povero atto, nella nostra povera vita, noi dobbiamo farci contemporanei di tutte le età, fratelli di tutti gli uomini, vicini ad ogni essere vivente: nella nostra misera vita, non soltanto contemporanei di tutti, ma prossimi a ciascuno.

Quant’è grande il Vangelo! L’amore cristiano che è amore universale, che non conosce limiti in sé, si chiama amore del prossimo. Come può essere universale se è amore del prossimo? Se è del prossimo non è amore dei lontani? Ma non esistono più lontani, tutti sono divenuti prossimi a te, tu sei contemporaneo di tutte le età. Uomini che sono morti cinquantamila anni fa, centomila anni fa, sono tuoi contemporanei: tu ne vivi la vita, tu devi riassumere la loro pena nella ricerca di Dio. Tu devi vivere l’ingenua ricerca di una divinità propria di queste anime che emergevano appena dal buio dell’incoscienza e della barbarie; tu devi vivere la vita di ognuno come tua propria, devi assumere il peccato di ognuno come il tuo proprio peccato, devi sentire nelle tue membra il tormento, la sofferenza, il dolore, il bisogno di ogni anima. Non è mica facile! Chi di noi può vivere una tale perfetta carità? Eppure è la nostra vocazione perché siamo chiamati a questo amore. La vocazione monastica ci chiama a realizzare l’unità della Chiesa in noi stessi. Ognuno di noi tutto; in Cristo è stata ricomposta l’unita dell’uomo. In quanto persone certo ci distinguiamo gli uni dagli altri, ma non possiamo separare più alcuno da noi. Noi siamo uno, il solo Cristo; siamo una sola cosa tutti, siamo un solo essere, una sola vita.

Vivere questa universalità: ecco l’impegno nostro. Così, proprio così, si collabora più efficacemente all’unità stessa della Chiesa, a quella unità della Chiesa che apparirà piena e perfetta solo dopo questo tempo, dopo questa economia presente, quando l’imperfezione propria della condizione umana sarà finalmente superata e visibilmente risplenderà la redenzione che già ogni anima vive nel suo intimo cuore.

Vi sembra che quello che ho detto sia un po’ troppo per aria? Ma si deve tendere a questo.

Dal Ritiro del 16 gennaio 1959 a Viareggio

Quando nasce la Comunità? (1955)

Nella prima alleanza, segno dell’alleanza stessa fu la Legge, il Decalogo. (…) L’alleanza antica si esprimeva cosi: Israele sarà legato a Dio attraverso il Decalogo. Nella nuova alleanza si dà una nuova legge, il comandamento nuovo: a tutti i comandamenti dell’antico patto risponde un solo nuovo comandamento: il comandamento dell’amore e dell’amore fraterno. San Giovanni insiste sull’amore fraterno più che sull’amore dell’uomo per Iddio. L’amore dell’uomo per Iddio non lo conosce san Paolo e lo conosce poco san Giovanni, benché i vangeli sinottici lo riconoscano. Gesù non dà un nuovo comandamento dell’amore dell’uomo verso Dio, non fa altro che confermare il comandamento del Deuteronomio: «Amerai il Signore con tutto il tuo cuore…».

Il nuovo comandamento di Dio è l’amore scambievole che debbono portarsi i discepoli. Ma attenzione: non è nemmeno l’amore del prossimo, non è un amore – questo è importante per noi della Comunità – come si esprime nei Vangeli sinottici: amore che rompe tutti i limiti, che non conosce le divisioni di razza, di religione; non è un amore universale gratuito. Può sembrare che il nuovo comandamento di Cristo sia di fatto un amore che restringa la concezione della carità cristiana, come era già stata espressa nei Vangeli sinottici. Di fatto non restringe nulla. Questo amore che è comandato da Cristo dopo l’ultima cena, è l’amore scambievole, quello che gli uomini debbono portarsi gli uni agli altri, e non gli uomini in genere, ma i suoi discepoli: un amore onde gli uni debbono amare gli altri come Gesù ha amato, di un amore totale, di un amore che è dono pieno e intero di sé, di un amore che importa anche il ricevere pienamente il dono dell’altro, di un amore che crea la comunità, l’unità dei credenti, l’unità dei fedeli, dei discepoli.

Un amore universale è un amore donato, offerto, ma non ha necessariamente una risposta. L’amore che invece è comandato da Cristo dopo l’ultima cena, è l’amore che esige la risposta, l’amore vicendevole: «Amatevi l’un l’altro». È l’amore che crea la comunità, che dimostra anzi, l’unità di tutti in Lui (…).

Comunità: omnia mea tua sunt et tua mea sunt. Non vi è più né tuo né mio: ognuno è impegnato a donarsi totalmente e non soltanto a donarsi, ma a ricevere anche il dono dell’altro. Non è vera carità quella che è soltanto dono. Ci manteniamo sempre in una condizione di privilegio, in fondo, donandoci soltanto. Dare e ricevere: dobbiamo sentire questo. Non vivremmo la Comunità se noi sentissimo soltanto di dover donare ad un’altra figliola perché è più semplice, più povera di noi. Anche questa figliola ha molto da donarci e noi dobbiamo ricevere il suo dono, sentire il bisogno del suo dono ed accettarlo. Con umiltà e semplicità essere veramente impegnati ad amarci l’un l’altro. Credo che sia questo veramente il nuovo comandamento di Cristo e che la Comunità esiga l’esercizio precisamente di questo amore vicendevole, che importa una compenetrazione dell’uno nell’altro, quasi una “circuminsessione” fra noi, una pericoresis. Quello che è proprio delle persone divine deve essere proprio anche delle persone umane nel mistero di quell’unità che è il Cristo totale. Come nell’unica natura di Dio sussistono tre persone divine le quali l’una all’altra e l’una all’altra si donano, così nell’unità del corpo mistico di Cristo, di quel corpo che ha realizzato precisamente l’unione eucaristica, nell’unità di questo corpo mistico l’uno vive nell’altro, dona se stesso all’altro e riceve (…).

In fondo, c’è dell’orgoglio nel voler soltanto amare e donare, nel voler soltanto far noi: dobbiamo sentire anche il bisogno degli altri. Non soltanto il bisogno di darsi, ma anche il bisogno di ricevere. Vi potrà sembrare che io non possa ricevere nulla: io debbo invece ricevere tutto da voi, come tutto voi dovete ricevere da me.

Allora nasce la Comunità: quando il dono è veramente reciproco.

Incontro del 7 aprile 1955, Firenze

Amiamo perché amiamo (1980)

Miei cari fratelli, è stolto pensare che l’amore cristiano debba volgersi al terzo mondo, se intanto si rifiuta alle persone che ci sono vicine. È la Provvidenza che determina come il nostro amore deve essere vissuto, volendo che alcune persone siano anche concretamente più legate a noi e altre ci siano più vicine. Questo non implica che io sia eternamente condizionato dalla vostra presenza, ma se io cerco di amare al di là della mia famiglia di sangue o della mia famiglia religiosa, per amare gli altri, io non amo.

È facile amare gli altri, perché gli altri non ci danno noia. Il mio amore fraterno potenzialmente non deve escludere nessuno, deve essere universale per sé, però rimane condizionato dalla mia stessa natura, dal luogo dove sono, dall’ambiente in cui vivo, dalle persone che il Signore mi mette vicino. E questo che cosa vuol dire per noi? Prima di tutto amarci fra noi. È quello che ci ha insegnato Gesù medesimo nel IV Vangelo: «Amatevi vicendevolmente» (Gv 13, 34), Egli dice, e lo dice a proposito dei suoi discepoli.

(…) Si è detto altre volte che l’amore cristiano, come l’amore di Dio, non solo è universale, ma è anche gratuito, senza motivo. Io debbo amare non perché l’altro mi ama, io debbo amare non perché l’altro mi odia; amo perché amo. Ma il mio amore non è mai un amore di reazione. Nietzsche non ha capito nulla dell’amore cristiano, quando ha detto che la morale cristiana è la morale degli schiavi, perché – diceva – i cristiani fanno come i cani, che ricevono un calcio dal padrone e gli leccano i piedi invece di morderlo. «Tu, se uno ti dà un calcio, dagliene cinque – diceva Nietzsche – così dimostri di essere uomo; questi cristiani sono soltanto degli schiavi». Non è vero; non perché il nostro amore non debba rivolgersi anche a chi ci odia, ma perché noi non amiamo perché siamo odiati e neppure perché siamo amati; amiamo già in precedenza. Il nostro amore precede l’altrui atto e per questo rimane gratuito. Amiamo. Non possiamo vivere un rapporto con gli altri che come atto di amore. Così anche Dio.

Però se l’amore cristiano è un amore gratuito, se è vero, non pretende una risposta ma l’attende. Se noi fossimo indifferenti, nemmeno ameremmo. Saremmo alla pari del padrone che dà al suo cane un tozzo di pane e lo manda via, non gli interessa poi nulla, se il cane ha riconoscenza per lui. Dio non può amarci così. E nemmeno noi possiamo amare così, pur dovendo noi amare di un amore disinteressato, perché il nostro amore, se è cristiano, crea la comunità e la comunità non si realizza che in quanto l’amore diviene vicendevole. Io non faccio dipendere il mio amore per voi dal fatto che voi rispondiate o meno al mio amore, però l’amore vero crea la comunità, cioè all’amore che io dono risponde l’amore dell’altro. «Amor che a nullo amato amar perdona» (Dante, Inferno V, 103) rimane vero anche nell’amore cristiano.

E anche nell’amore di Dio. È l’amore di Dio che fa i santi, ma i santi devono rispondere all’amore. È indifferente per Iddio che uno risponda al suo amore? No, perché Egli dona il paradiso a chi gli risponde, mentre chi glielo rifiuta non può andare in paradiso. E non già perché Dio lo condanna, ma perché, se rifiuta l’amore, non può nemmeno riceverlo. Noi siamo realmente amati solo nella misura che, accettando l’amore, rispondiamo all’amore.

Esercizi spirituali a La Verna, 3-10 agosto 1980

Una carità senza confini (1962)

La legge per il Cristianesimo si riassume praticamente nella carità, nel vivere in modo concreto l’unione fraterna fra noi: viverla con uno scambio frequente, anche epistolare, viverla con l’ospitalità generosa (che le nostre case siano sempre aperte nella misura del possibile alle nostre sorelle, ai nostri fratelli), viverla con una carità fraterna che implichi il superamento di tutto quello che può opporsi alla carità. Amor proprio, suscettibilità, invidie, gelosie, non debbono esservi fra noi. Che si possa realizzare pienamente quello che si diceva della Chiesa primitiva: siamo cioè un cuor solo e un’anima sola. Non potremo mai vivere la nostra professione religiosa, la nostra consacrazione al Signore, che in un’umile, ma sincera volontà di amarci sempre più, e di amarci sempre di più nel Signore. La carità impegna più di tutto, dunque, a vivere nella Comunità creando questa unità dell’amore che deve essere la testimonianza più alta che noi dobbiamo rendere agli altri, a coloro che vivono al di fuori della Chiesa, anche a coloro che vivono nella Chiesa, ma non vivono un impegno di perfezione religiosa. Questo dunque ci deve caratterizzare, così come caratterizzò i cristiani primitivi: «Guarda come si amano».

Ma non è sufficiente. La carità non è soltanto un amore vicendevole e reciproco che ci unisce fra di noi: è un amore, anche, che trabocca dalla Comunità e non conosce confini e raggiunge tutti, e colma, nella misura del possibile, le aspirazioni di tutti, o almeno vuol venire incontro a ciascuno in un servizio vero, concreto, umile, di amore. Prima di tutto si impone alla Comunità il vivere l’ansia, l’aspirazione di una unità di tutti i cristiani nella Chiesa una. La Comunità, dunque, deve favorire la conoscenza dei cristiani da noi separati, tanto orientali che occidentali. Deve, se sarà opportuno, stabilire rapporti epistolari e anche rapporti umani con cristiani e movimenti religiosi di altre confessioni, senza voler fare del proselitismo, unicamente perché si stabilisca questo rapporto di amore. È l’amore, se è grande, che deve stabilire poi quella unità piena che ci ricongiungerà tutti insieme nell’unica Chiesa.

(…) Ma non termina qui per noi l’esigenza della carità, legge suprema del cristiano, legge pertanto suprema della Comunità. Il traboccare della nostra carità verso gli altri ci porta a sentire profondamente il problema missionario, a studiarlo; importa che noi sentiamo il bisogno di vivere, di essere presenti in ogni luogo della terra, per rendere testimonianza di una presenza di Dio a tutte le anime, non solo ai cristiani di qui ma anche a coloro che ancora non conoscono il Cristo, ma anche a coloro che lo hanno perduto. È una esigenza della Comunità lo stabilirsi anche nei paesi infedeli, e prima o dopo la Comunità dovrà portare le sue tende al di fuori dell’Europa, in ogni continente, in ogni terra: non per fare l’apostolato diretto, ma perché è un’esigenza del nostro amore conoscere tutti, amare ciascuno, e volere l’unità con tutti, così come ognuno di noi vuole la sua unione con Dio; perché noi tutti – dal momento che possediamo la verità, possediamo il Signore, crediamo almeno di possedere la grazia – siamo debitori a tutte le anime di rendere testimonianza di questa presenza dell’amore dei nostri cuori, amando e sacrificandoci per tutti, mettendoci a servizio di tutti in umiltà, in semplicità ma nella verità.

E la legge dell’amore non termina qui, per noi, le sue esigenze: esige che ci sentiamo impegnati – ciascuno nel suo campo, ciascuno nella sua condizione e nel proprio stato, ciascuno secondo le sue possibilità, nell’esercizio della sua professione – ad un servizio che non conosce altra misura che le sue possibilità, altra misura che il dono di sé vissuto con semplicità ed umiltà ma realmente, nei riguardi di tutti i fratelli e particolarmente di coloro che sono a noi più vicini e di cui perciò possiamo conoscere più profondamente i bisogni.

Dobbiamo ricordarci che se in noi deve viver l’amore, l’amore ci impone la morte come la impose a Gesù. Non si ama mai senza morire: morire a noi stessi, ai nostri egoismi, alle nostre piccole invidie, alle nostre suscettibilità, alle nostre gelosie, alla nostra pigrizia e lentezza nel bene. Dobbiamo viver l’amore, e siamo impegnati perciò a morire continuamente a noi stessi per vivere il dono di noi stessi a ciascuno. Soltanto nel superamento continuo dei nostri egoismi la Comunità può vivere, la Comunità può essere davvero, come lo era la Chiesa primitiva, un cuor solo e un’anima sola. A questo ci impegna la nostra professione religiosa. E ci impegna poi a vivere un amore che non soltanto ci prenderà totalmente, ma crescerà sempre più nel nostro cuore fino a proporzionarci in qualche modo a Dio stesso, ci impegnerà ad amare ciascuno, non solo dentro la Comunità ma anche al di fuori: tutti i cristiani nei loro particolari bisogni, tutti i cristiani anche separati, tutti gli infedeli, gli atei, i nemici di Cristo e della Chiesa: ad amare tutti, a non avere per tutti altro che amore.

Dall’Adunanza del 4 Novembre 1962 a Firenze