mercoledì, Novembre 29, 2023

Questa è preghiera

Meditazione sulla preghiera a Gesù (1994), pp. 17-20

Bisogna evitare i malintesi quando si parla di preghiera continua. Si dice che è preghiera il lavoro, che è preghiera la sofferenza, si dice anche che è preghiera lo studio: invece, né il lavoro è preghiera, né la sofferenza è preghiera, né lo studio è preghiera. Solo la preghiera è preghiera, niente altro. Di per sé la sofferenza è sofferenza, lo studio è lo studio, il lavoro è lavoro, come anche la preghiera è preghiera – non vi sarebbero due nomi a definire la medesima cosa. Due nomi definiscono due cose diverse: se lavoro e preghiera, sofferenza e preghiera, studio e preghiera fossero la medesima cosa, non avrebbero nomi diversi.

Come, dunque, vivere una preghiera continua? Pregare è vivere un rapporto con Dio: l’anima deve vivere questo rapporto. Come lo vivrà? Nemmeno la preghiera è preghiera se noi crediamo che essa consista nella recita di una formula; la preghiera è invece un atto che precisamente stabilisce un rapporto con Dio e fa sì che l’uomo inizi un colloquio, un movimento di amore, viva con Dio una sua unione.

(…) La continua preghiera è il contrario che fare continue preghiere. La moltiplicazione di una formula piuttosto che realizzare la continua preghiera sembra renderla impossibile, perché la continua preghiera vuol essere non moltiplicazione di atti ma stato di unità, di semplicità, di purezza. E tuttavia è solo attraverso la moltiplicazione di atti che fissano lo spirito in un solo contenuto intelligibile, che diviene possibile la preghiera pura.

È certo che tutto questo si realizza nel modo più cosciente e più puro con la preghiera comunemente detta, che importa una parola che è atto di amore, di umiltà, di abbandono, che importa una parola che include l’atto di fede, di speranza, di carità; ma non è detto che anche un atto che immediatamente non si traduca in parola non debba stabilire un rapporto, una unione. Non sempre è necessaria la parola a stabilire l’unione; anche il silenzio stabilisce l’unione quando l’amore è profondo. Può essere un atto. Per esempio: io incontro una persona che da tanto tempo non vedo: le stringo la mano, non parlo – lo stringere la mano stabilisce un contatto, rafferma e ravviva un rapporto di amicizia, di affetto, di stima… stabilisco una unione con questa persona.

Così, il mio rapporto con Dio lo vivo attraverso la parola, posso viverlo attraverso il silenzio, attraverso atti esteriori. Anche quel silenzio, quegli atti sono preghiera se stabiliscono questo rapporto; al contrario, io posso dire il rosario senza pregare, se il rosario non mi mette in rapporto con Dio. Una mamma che soffre vicino al letto del suo bambino malato vive un rapporto col suo bambino mediante appunto la sua sofferenza, attraverso l’occhio che lo contempla; il rapporto può essere stabilito anche dal contatto della manina che la mamma si stringe al cuore, anche quando la mamma sia lontana e non abbia altro rapporto col bambino che quello della sofferenza di saperlo lontano, di non poterlo vedere, non saper più nulla di lui. È in questa sofferenza che il rapporto esiste: la sofferenza è allora veramente il mezzo onde essa vive il rapporto col figlio.

Così è in rapporto il padre col suo figliuolo quando lavora per lui, quando fatica, quando suda per ottenere i mezzi per mandare avanti i suoi studi, per poterlo educare, nutrire: il lavoro del padre è un atto onde il padre vive il suo rapporto col figlio. Non lo vive chiacchierando tutto il giorno col figliuolo, ma lavorando per lui. Noi possiamo soffrire e pregare, se la sofferenza ci mette in rapporto con Dio; possiamo lavorare e pregare se il lavoro ci mette in rapporto con Dio. È preghiera l’atto che pone l’uomo in rapporto con Dio, che stabilisce questo rapporto e lo rende sempre più intimo e stretto.

Di per sé, possiamo dire, neppure la preghiera è preghiera – cioè la preghiera in quanto è recitazione di una formula, atto particolare di pietà -, preghiera sarà soltanto quell’atto umano che è espressione di fede, di speranza, di carità, onde l’anima si abbandona, si affida e confida, onde l’anima desidera il suo Dio e a Lui si protende, a Lui si unisce, lo abbraccia e lo ama.

Questa è preghiera.

Lasciarci invadere da Dio

Dall’omelia del 6 agosto 1984 a Casa San Sergio

(…) Si parlava stamani dell’importanza che ha la memoria nella vita cristiana. Il “ricordo di Dio” (espressione cara a San Basilio Magno, che è in fondo il Dottore della vita contemplativa nell’Oriente, il maestro del monachesimo orientale) è precisamente questo lento essere investiti dalla presenza di Dio in noi, cosicché noi abbiamo coscienza precisamente di questa sua Presenza nella nostra vita. Bisogna che sempre più, sia pur lentamente, questa invasione di luce penetri in noi e ci trasformi, faccia sì che tutta la nostra vita sia un’adesione pura alla luce divina. Non si tratta di far grandi cose, anzi la vita contemplativa semplifica. Se ora dite tante preghiere ne direte meno, però direte una preghiera che investe tutta la vita, ed è, come diceva San Gregorio di Nissa, il “sentimento di Dio”: di Dio non come una presenza a noi estranea, non come una presenza contigua davanti a noi, ma come una Presenza che ci investe nell’intimo; ci sentiamo posseduti da Lui, sentiamo che la sua presenza in noi ci trasforma, diveniamo come lo strumento della sua azione. Posseduti dal Signore, sentiamo che Egli vive attraverso le nostre potenze, pensa con la nostra intelligenza, ama col nostro cuore, opera con le nostre mani.

Fintanto che non viviamo questo non possiamo dire di vivere la nostra vocazione nella Comunità. Bisogna che veramente il Signore ci strappi a noi stessi ed Egli stesso viva in noi. Siamo un solo corpo con Lui e, se siamo un solo corpo con Lui, è Lui che deve vivere in noi. Le parole di San Paolo dovrebbero essere vere per ogni cristiano, ma debbono assolutamente esserlo per noi, se non vogliamo essere dei mentitori: «Vivo io ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

(…) Che possiamo dire della nostra vita? Che abbiamo giocato tutta la vita! Riceviamo il Signore tutti i giorni e ancora il Signore non ci ha trasformati in Sé! Oh, lo so bene che siamo delle povere creature, delle misere creature, ma so anche quanto questo dipende da noi, dal nostro poco impegno, dalla nostra scarsa volontà e soprattutto dal nostro orgoglio; crediamo di aver fatto tutto e ancora abbiamo da cominciare la vita cristiana. Meglio di noi sono i peccatori, i pubblici peccatori; non lo credete? Io lo credo! È mai possibile che noi si possa parlare di queste cose ed essere ancora così lontani dall’averle realizzate? Tutti i giorni ne parliamo, eppure viviamo una vita distratta, dissipata, superficiale;ancora siamo pieni di noi stessi, di amor proprio, ancora non sappiamo liberarci da tante suscettibilità. Possibile? Veramente Egli si dona a noi, ma noi non ci doniamo a Lui.

(…) Una cosa sola si impone, lo diceva anche il cardinal Mercier e prima Lallemant: la docilità allo Spirito Santo. Si tratterebbe soltanto di questa docilità, di strapparci ai nostri egoismi, di lasciarci possedere da Dio in umiltà e semplicità, in una grande pace interiore, e la nostra vita conoscerebbe la gioia. Perché vedete, miei cari fratelli, ha ragione proprio il padre Lallemant quando dice che per paura di essere infelici, noi scegliamo di essere infelici tutta la vita: abbiamo paura cioè di donarci a Dio. Proviamo un certo sgomento, vogliamo tenere il timone nelle nostre mani, vogliamo essere noi a guidare il nostro cammino, e così non ci doniamo a Dio, e così rimaniamo infelici. (…)

Miei cari fratelli, non dobbiamo disanimarci. Che cosa chiediamo tutti i giorni nella preghiera di Sant’Efrem? «Liberaci dallo spirito di oziosità, dallo scoraggiamento»: è la seconda cosa che chiediamo. Prima di tutto l’oziosità, perché dobbiamo metterci d’impegno, non dobbiamo giocare, non dobbiamo dormire! Passano gli anni e dobbiamo impegnarci sul serio non soltanto ad ascoltare Dio, ma anche ad abbandonarci a Lui. Poi lo scoraggiamento. Dio è l’onnipotenza: abbiamo perso tutti questi anni? Coraggio! Anche in meno di quattro anni Lui può farci santi.

(…) Si celebra oggi la festa della Trasfigurazione del Cristo: noi dobbiamo trasfigurarci. Come vi ho già detto, la nostra trasformazione prima di tutto avviene nel più intimo del nostro essere, e noi non possiamo averne nemmeno l’esperienza: avviene già nel Battesimo, per il fatto che nel Battesimo noi siamo inseriti nel corpo del Cristo. Ma poi l’azione della grazia investe le potenze spirituali: l’intelligenza e la volontà. Perciò la prima cosa che si impone per noi, dopo questa trasfigurazione compiuta dai sacramenti divini – specialmente da quei sacramenti che hanno impresso in noi il carattere – è la conoscenza di Dio: conoscenza che non è puramente astratta, è piuttosto la coscienza di Dio. Come noi siamo coscienti di noi stessi, esser coscienti che Dio ci investe, che Dio ci possiede, che Dio è in noi; sentirci come la pisside che contiene il corpo di Cristo, ma veramente come un’anima vivente che si sa penetrata, che si sente piena di Lui. Noi siamo veramente la dimora di Dio, il luogo di Dio; dobbiamo sentirlo. Nulla c’è per noi di più sacro di noi stessi; nemmeno il paradiso è più sacro di me, perché in paradiso Dio sarà per gli altri, ma Dio è per me in quanto è nel mio cuore; e io devo scendere nell’intimo mio per prendere coscienza di questa Presenza di Dio in me, per lasciare che Dio nella sua Presenza totalmente mi riempia e non ci sia più vuoto che Egli non riempia di Sé. Sentire in noi questa presenza di Dio, presenza del Cristo: ecco, questa è la prima cosa che noi dobbiamo realizzare. Ed è di qui che nasce la vita di contemplazione, ed è di qui che nasce la vita di preghiera, perché non può essere mai che si possa vivere una continua preghiera se non abbiamo questo sentimento di Dio che lentamente penetra tutta la nostra vita e la riempie di Sé.

Dall’alienazione alla Presenza

Esercizi spirituali a La Verna, 3-10 agosto 1980

Noi ora viviamo una vita di alienazione: non solo le cose non sono presenti a noi, ma neppure fra noi siamo presenti, anzi non siamo nemmeno presenti a noi stessi. (…) Siamo mistero a noi stessi, non ci conosciamo, non ci possediamo. Nessuna presenza è possibile quaggiù; tutta la nostra vita è alienazione.

(…) E badate bene che noi sperimentiamo tanto più la lontananza quanto più si ama, perché quanto più si ama, tanto più sentiamo questa incomunicabilità, perché nell’amore noi desideriamo di vivere una partecipazione piena, desidereremmo di vivere nell’altro e totalmente per l’altro. E l’altro chi è? Chi è per me il mio fratello, chi è per me un mio figlio? Chi è per me?

Cosa terribile, la presenza! Voi lo vedete, può morire una persona e l’altra rimane: come ci conosciamo? Cos’è l’uno per l’altro? Invece nella Trinità se il Figlio non è, non è nemmeno il Padre; se il Padre non è, non è nemmeno il Figlio. La Presenza che è la pericòresis, che è la ‘circuminsessione’, la presenza di ogni persona all’altra persona, è la vita delle tre Persone divine. Questa è la Presenza reale del Cristo. Noi siamo nella misura che il Cristo vive in noi, perché quello che costituisce la nostra vita vera, la nostra vita inseparabile, come diceva sant’Ignazio di Antiochia, è il Cristo.

(…) Noi tutti siamo chiamati a vivere questo rapporto col Cristo, perché quello che distingue il cristiano è questo rapporto. Come quello che distingue le persone divine nella Trinità è il rapporto di ogni persona all’altra correlativa, così nel Cristianesimo quello che ci distingue è il rapporto col Cristo. Nelle Persone divine c’è il rapporto del Padre al Figlio e del Figlio al Padre nell’unità dello Spirito; nell’economia cristiana quello che la distingue è il rapporto nuziale (non di filiazione, ma nuziale) fra il Cristo e noi, fra noi e il Cristo. Ecco perché nei mistici la vita spirituale trova sempre il suo compimento in quello che si chiama il matrimonio spirituale, o unione trasformante.

(…) La prima cosa dunque che per noi s’impone, in vista di questo rapporto col Padre, in vista di questo rapporto con tutti gli uomini, di questa unità che ci stringe fra noi, è l’incontrarci con Gesù, Figlio di Dio. Il Vangelo, il Cristianesimo è Gesù. Il libro sacro, per noi cristiani, non è un libro di dottrina, ma è il libro che ci parla di Cristo, che ci fa conoscere il Cristo, che ci mette in rapporto con Lui. E più ancora che nel Vangelo, il Cristianesimo ha il suo compimento nella liturgia e nella liturgia eucaristica, dove non si fa presente per noi che Cristo Signore. E non si fa presente che in quanto ci siamo noi, perché è sempre necessaria la presenza di una persona creata perché si faccia presente il sacerdozio di Cristo; ed è sempre necessaria la presenza anche del cristiano perché ci sia anche il Cristo vittima. Non c’è mai il Cristo indipendentemente da te, non ci sei mai tu come uomo veramente redento senza di Lui. La presenza del Cristo suppone sempre la presenza degli altri. Fin dall’inizio poteva mai essere fatto presente nostro Signore senza la Madonna? Si è incarnato senza Maria? Gesù non è senza l’uomo, l’uomo non è senza Gesù. L’uomo è veramente rapporto col Verbo.

(…) Il rapporto è totale, Egli vuole tutto da te e tutto Egli si dona. Questo rapporto soltanto ci distingue, perché è un rapporto personale, ma in questo rapporto personale onde noi siamo tutto per Lui e Lui tutto per noi, noi non viviamo più che un’unica vita: la vita del Cristo è la mia vita, la mia morte è la sua morte. Non è la morte del Cristo che diviene la mia morte, ma al contrario è la mia morte che Egli fa sua, facendo suo anche il mio peccato; ed è la sua vita che diviene la mia vita. Non c’è più dunque un’altra vita per noi. Se io vivo una mia vita propria, vuol dire che non ho realizzato la mia unità col Cristo. Se ancora ho una mia proprietà di vita, di sentimenti, non ho ancora realizzato la mia vocazione cristiana. Realizzare la mia vocazione cristiana vuol dire non vivere più che la sua vita: «Vivo ego, iam non ego; vivit vero in me Christus [non son più io che vivo, ma è Cristo che vie in me]» (Gal 2, 20).

L’amore puro

Nel Vangelo, quando lo scriba si rivolge al Maestro e gli domanda qual è il più grande comandamento della legge (cfr. Mt 22, 36), Gesù ripete per lui il comandamento come risulta dal Deuteronomio: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza» (Dt 6, 4-9), aggiungendo, subito dopo, il precetto dell’amore del prossimo, che pure si trova nell’antica legge e precisamente nel Libro del Levitico (cfr. Lv 19, 18).

Perché nel Vangelo di oggi questo comandamento si trasforma? (cfr. Mt 10, 37-42). Di fatto le parole del Deuteronomio erano parole che dovevano realizzare il rapporto di assoluta dipendenza, di assoluta dedizione a Dio, come Dio. Qua a Dio Gesù sostituisce Se stesso. Ora, quando Gesù parla di Dio, intende il Padre; perché in questo Vangelo esige l’amore per Sé? E quale amore esige? Evidentemente, quando gli si domanda qual è il comandamento, Gesù richiama la parola di Dio nell’antica Alleanza: erano ebrei, dovevano sapere che tutta la legge si compendiava in questo comandamento del Deuteronomio. Li rimanda dunque a quello che essi già sapevano e che tuttavia non avevano mai realizzato. Perché invece, qui Gesù sostituisce all’amore di Dio, l’amore di Sé? (…).

«Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non èdegno di me» (Mt 10, 37). Sono due i motivi e tutti e due grandi (si potrebbe dire anche un motivo solo, ma è meglio distinguere). Primo, l’amore di Dio noi possiamo concepirlo in duplice modo: o amore fisico, come dice san Tommaso d’Aquino, o amore estatico, come (invece) dice san Bernardo. A proposito dell’amore fisico san Basilio, nelle Regulae fusius tractatae, ci dice che l’amore di Dio è un amore naturale; non si potrebbe non amare Dio, l’amore di Dio è un fatto, il più spontaneo, il più semplice del cuore umano, perché il cuore umano è fatto per la verità, per la bellezza, per la bontà, per la gioia, e Dio è tutto questo. È fatto cioè, l’uomo, per avere in Dio il suo fine, e allora la natura stessa lo spinge, lo stimola in questo cammino, in questo rapporto che deve unire l’uomo a Dio. Già, ma è questo l’amore più perfetto? No, questo è amore di concupiscenza. Sarà un grande amore anche questo, perché è l’amore per il quale in Dio l’anima trova la sua perfezione e la sua felicità… ma ama Dio o ama se stessa l’anima, amando Dio in quanto è la sua felicità, amando Dio in quanto è la bellezza cui l’anima aspira, amando Dio perché Dio è la bontà che l’anima vuole?

È un fatto molto importante questo. Nel cattolicesimo, per secoli e secoli, i più grandi maestri della spiritualità e i più grandi mistici hanno combattuto fra loro, proprio a proposito dell’amore puro. L’amore puro è un amore che non ha riferimenti a sé: è l’amare Dio per Iddio. L’amore di Dio per Iddio implica che l’uomo esca di sé, non voglia attrarre Dio a sé come suo bene, non voglia considerare in Dio la sua felicità e la sua perfezione, ma che, nella dimenticanza totale di sé, si ordini a Lui. A differenza di san Tommaso, l’amore per Iddio, in san Bernardo, è un amore estatico; prima di lui anche Dionigi l’Areopagita aveva affermato che Dio, amando, esce di Sé, infatti si fa uomo; e anche l’uomo, amando Dio, esce di sé, dimentica se stesso, non vuole che Lui.

In un sonetto famoso, che è stato attribuito a san Francesco Saverio, si dice: «Non m’importa, o Dio, del paradiso, non m’importa, o Dio, dell’inferno: io amo Te per quello che sei, non penso a me, nonvoglio nulla per me, voglio che Tu sia». Dunque per tanti secoli, nella spiritualità cristiana, è stato presente questo problema, o meglio questo comandamento dell’amore puro che non si capiva che cosa fosse, né come doveva viverlo l’anima. Comunque rimane vero che l’amore puro è l’amore estatico, è un amore per il quale l’uomo esce di sé; non trae a sé Dio, ma egli si ordina a Lui e muore per Lui, cioè dimentica se stesso, non vuole se stesso, vuole Dio solo. Allora l’amore nel Cristianesimo non può essere più soltanto l’amore del Vecchio Testamento, perché nel Vecchio Testamento non c’è mai un amore puro. Nell’Antico Testamento il testo più bello in cui si esprime l’amore è il v. 28 del Salmo 72: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). Ma… «il mio bene»! L’amore nel Vecchio Testamento è sempre un amore di desiderio, è l‘eros, il tendere di tutta l’anima a Dio, in quanto Dio è la nostra suprema felicità. Sempre è eros l’amore di Dio nell’Antico Testamento, nel Nuovo Testamento è l’agàpe; ed perciò un amore che implica lo strapparsi alle proprie radici, al proprio egoismo. Non voler se stessi, non pensare più a sé, ma volere che Dio sia Dio.

Adunanza a Firenze, 1° luglio 1984

L’amore puro

Nel Vangelo, quando lo scriba si rivolge al Maestro e gli domanda qual è il più grande comandamento della legge (cfr. Mt 22, 36), Gesù ripete per lui il comandamento come risulta dal Deuteronomio: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza» (Dt 6, 4-9), aggiungendo, subito dopo, il precetto dell’amore del prossimo, che pure si trova nell’antica legge e precisamente nel Libro del Levitico (cfr. Lv 19, 18).

Perché nel Vangelo di oggi questo comandamento si trasforma? (cfr. Mt 10, 37-42). Di fatto le parole del Deuteronomio erano parole che dovevano realizzare il rapporto di assoluta dipendenza, di assoluta dedizione a Dio, come Dio. Qua a Dio Gesù sostituisce Se stesso. Ora, quando Gesù parla di Dio, intende il Padre; perché in questo Vangelo esige l’amore per Sé? E quale amore esige? Evidentemente, quando gli si domanda qual è il comandamento, Gesù richiama la parola di Dio nell’antica Alleanza: erano ebrei, dovevano sapere che tutta la legge si compendiava in questo comandamento del Deuteronomio. Li rimanda dunque a quello che essi già sapevano e che tuttavia non avevano mai realizzato. Perché invece, qui Gesù sostituisce all’amore di Dio, l’amore di Sé? (…).

«Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non èdegno di me» (Mt 10, 37). Sono due i motivi e tutti e due grandi (si potrebbe dire anche un motivo solo, ma è meglio distinguere). Primo, l’amore di Dio noi possiamo concepirlo in duplice modo: o amore fisico, come dice san Tommaso d’Aquino, o amore estatico, come (invece) dice san Bernardo. A proposito dell’amore fisico san Basilio, nelle Regulae fusius tractatae, ci dice che l’amore di Dio è un amore naturale; non si potrebbe non amare Dio, l’amore di Dio è un fatto, il più spontaneo, il più semplice del cuore umano, perché il cuore umano è fatto per la verità, per la bellezza, per la bontà, per la gioia, e Dio è tutto questo. È fatto cioè, l’uomo, per avere in Dio il suo fine, e allora la natura stessa lo spinge, lo stimola in questo cammino, in questo rapporto che deve unire l’uomo a Dio. Già, ma è questo l’amore più perfetto? No, questo è amore di concupiscenza. Sarà un grande amore anche questo, perché è l’amore per il quale in Dio l’anima trova la sua perfezione e la sua felicità… ma ama Dio o ama se stessa l’anima, amando Dio in quanto è la sua felicità, amando Dio in quanto è la bellezza cui l’anima aspira, amando Dio perché Dio è la bontà che l’anima vuole?

È un fatto molto importante questo. Nel cattolicesimo, per secoli e secoli, i più grandi maestri della spiritualità e i più grandi mistici hanno combattuto fra loro, proprio a proposito dell’amore puro. L’amore puro è un amore che non ha riferimenti a sé: è l’amare Dio per Iddio. L’amore di Dio per Iddio implica che l’uomo esca di sé, non voglia attrarre Dio a sé come suo bene, non voglia considerare in Dio la sua felicità e la sua perfezione, ma che, nella dimenticanza totale di sé, si ordini a Lui. A differenza di san Tommaso, l’amore per Iddio, in san Bernardo, è un amore estatico; prima di lui anche Dionigi l’Areopagita aveva affermato che Dio, amando, esce di Sé, infatti si fa uomo; e anche l’uomo, amando Dio, esce di sé, dimentica se stesso, non vuole che Lui.

In un sonetto famoso, che è stato attribuito a san Francesco Saverio, si dice: «Non m’importa, o Dio, del paradiso, non m’importa, o Dio, dell’inferno: io amo Te per quello che sei, non penso a me, nonvoglio nulla per me, voglio che Tu sia». Dunque per tanti secoli, nella spiritualità cristiana, è stato presente questo problema, o meglio questo comandamento dell’amore puro che non si capiva che cosa fosse, né come doveva viverlo l’anima. Comunque rimane vero che l’amore puro è l’amore estatico, è un amore per il quale l’uomo esce di sé; non trae a sé Dio, ma egli si ordina a Lui e muore per Lui, cioè dimentica se stesso, non vuole se stesso, vuole Dio solo.

Allora l’amore nel Cristianesimo non può essere più soltanto l’amore del Vecchio Testamento, perché nel Vecchio Testamento non c’è mai un amore puro. Nell’Antico Testamento il testo più bello in cui si esprime l’amore è il v. 28 del Salmo 72: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). Ma… «il mio bene»! L’amore nel Vecchio Testamento è sempre un amore di desiderio, è l‘eros, il tendere di tutta l’anima a Dio, in quanto Dio è la nostra suprema felicità. Sempre è eros l’amore di Dio nell’Antico Testamento, nel Nuovo Testamento è l’agàpe; ed perciò un amore che implica lo strapparsi alle proprie radici, al proprio egoismo. Non voler se stessi, non pensare più a sé, ma volere che Dio sia Dio.

Adunanza a Firenze, 1° luglio 1984

Che Dio sia!

Di fronte all’infinita santità di Dio l’anima sente che tutto quello che possiede, se non è un puro dono di Dio, è qualcosa che usurpa alla Sua pienezza divina. Ogni lode, ogni stima, ogni sentimento di affetto è usurpazione a Dio. È perché Dio non è davanti ai nostri occhi, che noi possiamo star qui e c’è posto per noi in questa casa. Se Dio fosse davanti a noi nello splendore della Sua Santità, noi non potremmo tollerare di esser qui, imploreremmo di esser cacciati fuori.

Forse questo è un po’ troppo? No, non è troppo. Sentiremmo proprio come una cosa incomprensibile la misericordia di Dio, che ci permette di abitare in questa santa casa; non ci riavremmo dallo stupore di come il Signore potesse permettere ancora che rimanessimo qui, che fossimo tollerati qui. Non è questo che insegna santa Caterina di Genova? L’anima che non si è ancora purificata di ogni ombra, si getterebbe piuttosto nell’inferno che accettare di vivere nella Luce della Presenza ineffabile. Pensate ad una santa Geltrude che non si riaveva dallo stupore di come la terra non la inghiottisse viva! Ella viveva in una confidenza nel Signore del tutto straordinaria; la virtù propria della Santa è precisamente la sua confidenza illimitata nell’amore di Dio. Ma quando ella dinanzi alla santità infinita di Dio guardava se stessa, non sapeva capacitarsi come l’inferno non l’ingoiasse viva. Certo, anche fra noi ci saranno di queste anime che implorano costantemente dal Signore nuove umiliazioni e nuovi patimenti. È questo il cibo dell’anima che ha conosciuto Dio (…).

Sentiamo la nostra presenza come uno sgorbio in un immenso capolavoro, come una macchia nella purezza infinita della Luce, se viviamo davanti al Signore. E l’anima non può sentire che questo bisogno di esser fatta a pezzi, di esser macinata, di essere distrutta: l’unica gioia dell’anima che contempla Dio non può essere che la croce, non può essere che l’umiliazione, l’unica gioia l’oblìo. Anche per voi certamente non esiste altra gioia che questa: di essere umiliati come Giovanni della Croce, di essere messi in un canto (…).

Se volete essere qualcosa ancora è segno che Dio per voi non è tutto, che Dio per voi non è Dio, perché Dio è l’Unico. Se volete essere qualcosa… ma è vero che voi non volete essere proprio nulla di nulla? È proprio vero che nell’intimo non c’è più alcuna pretesa di compatimento, di comprensione, non conservate ancora un certo desiderio di esser conosciuti? Vivete per voi o vivete per Dio? Dio che cos’è per voi? Certo, se il Signore aspettasse la nostra preghiera per condurci per questa via, forse avrebbe da aspettare!… Misericordiosamente è Lui stesso che provvede e molto spesso ci conduce per una via d’immolazione e d’umiltà. Ma quando l’anima fa la vittima, quando l’anima sente di essere immolata, molto probabilmente già ha ricevuto il suo compenso, già è uscita da quella via che nell’amore ci conduce all’oblìo di noi stessi, ed essa cerca di nuovo se stessa nel compatimento. Cosi avviene che le vittime, non avendo il compatimento degli altri, almeno hanno il loro proprio e non fanno altro che guardarsi e compassionarsi molto amorosamente. Umiltà, figlioli, umiltà! È l’unica garanzia di una vita religiosa autentica e profonda. Umiltà vera, umiltà grande… irresistibile bisogno di scomparire, di non essere più: che Egli sia!

(…) Ricordate il Cantico di San Sergio? Ecco la via per giungete davvero alla trasformazione d’amore: «Nessun uomo, nessuna creatura, – nulla nel cielo e sopra la terra ti adori di più; – nessuno ti conosca o ti ammiri, – nessuno ti serva, ti ami»: nessuno. Nulla per sé, ecco la condizione. Allora «illuminato dallo Spirito, battezzato nel fuoco, chiunque tu sia: vergine, monaco, sacerdote, – tu sei trono di Dio, sei la dimora, sei lo strumento, sei la luce della Divinità». A una condizione: non essere nulla! (…).

Che il Signore si degni di condurci per questa via fin sulla cima, finché non saremo Dio per partecipazione. «Tu sei Dio, Dio, Dio», dice ancora San Sergio. «Dio nel Padre, Dio nel Figlio, Dio nello Spirito Santo, sei Dio». Non è più che Dio, Dio solo, Dio che vive in te, perché anche tu non sei più che pura condizione a una Sua presenza, una presenza che tutto allontana e consuma perché Egli è l’Unico, il Solo.

Luce, umiltà, amore, pp. 89-92

Credere all’amore (1984)

 È la vostra fede che realizza in voi la divina Presenza, perché credere all’Amore è aprirsi secondo l’amore nel quale si è creduto. Tanto vi dilatate nella fede quanta è la vostra fede in Dio che è l’Amore.

Credere all’Amore! Volete essere sante come santa Teresa? Non potete chiedere questo a Dio, perché, voler essere santi ‘come’ è già offendere Dio. Forse sarete meno sante di santa Teresa, ma non potete dare una misura all’amore divino. Io non posso accettare e mi ribello, quando leggo nella vita di certi santi – per esempio del beato Bertone o di san Paolo della Croce – che vogliono essere più santi degli altri! ‘Più’: che senso ha il più? Che senso ha il più e il meno, quando si tratta di Dio? lo voglio amare Dio come Dio si ama. Non c’è un più e un meno: c’è l’infinito e perciò soltanto l’infinito è la misura con la quale si può amare Dio. Altrimenti il mio amore l’offende, è indegno di Lui.

Voi sarete forse meno sante di santa Teresa, ma non potete mettere un limite alla vostra santità. Lasciate che lo metta la vostra natura, non la vostra volontà; lasciate che lo metta il decreto divino ma non mettetelo voi. Voi dovete adeguarvi a Dio. D’altra parte, il nostro adeguarci a Dio avviene secondo le possibilità della nostra natura. Il concetto che noi possiamo avere di Dio, non sarà mai adeguato alla sua infinita essenza. Perciò un limite vi è, ed è nella nostra natura, ma non deve essere nella nostra volontà, nel nostro giudizio. lo non posso volere esser santo come santa Teresa o san Paolo. Certamente sarò molto meno, ma non è questo che conta. Conta il fatto che io devo essere colmato secondo la misura, secondo il concetto, secondo la conoscenza che Dio mi dà di Se stesso, perché la legge dell’uomo è Dio stesso. Nel cristianesimo non c’è altra legge. Lo dice san Paolo e lo dice san Giovanni della Croce. Leggete quella che è veramente la promulgazione della legge, nel Nuovo Testamento, alla fine del Sermone della montagna: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48). La legge dell’uomo è Dio. Tu devi essere Lui! E naturalmente Dio si rivela a ciascuno in modo diverso ma per ciascuno la rivelazione di Dio è sempre la rivelazione di una perfezione che l’uomo non potrebbe pensare più grande. È secondo quella misura che io devo essere santo. Un’intelligenza più alta della mia o un’anima più pura della mia può avere di Dio una concezione ancor più alta della mia, ma sempre finita. L’infinito – è vero – si proporziona alla finitezza della mia intelligenza, ma la misura è quella e non un’altra: è Dio stesso.

Ecco che cosa vuol dire credere all’Amore: aprirsi, dilatare la propria anima ad accogliere Dio.

(…) Non scoraggiatevi mai, non trovate mai motivo di delusione o di stanchezza. Credere all’Amore vuol dire avere una riserva continua ed inesauribile per proseguire il cammino. Come fai a temere? Come fai a scoraggiarti? Come fai a fermarti lungo la via? Come fai a essere delusa? Dio con tutta la sua onnipotenza, Dio con tutto il suo amore, tutto ti si dona. Credere all’Amore!

(…) Apritevi all’amore di Dio. Se la santità alla fine rimane dono di Dio, a voi tocca soltanto di aprirvi nella fede ad accogliere il suo amore. È troppo facile questa santità? Non è più facile di quella che acquistò santa Maria Maddalena che era una donna di strada. Si gettò ai piedi del Cristo e quando si alzò ottenne il suo elogio: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato» (Lc 7, 47). Perché «ha molto amato»? Che cosa aveva fatto? Aveva creduto all’Amore, non c’era altro. Tutto il suo peccato non l’aveva arrestata nel suo ardore, l’aveva gettata ai piedi del Cristo. Aveva creduto e si era abbandonata, si era aperta a ricevere il dono dell’amore divino.

Questo è credere all’Amore.

Spiritualità carmelitana e sacramenti, Edizioni OCD, Roma 2014 (II ediz.), pp. 303-308

 

 

Dio non è Dio senza di me (1984)

Quando io nella Messa dico «Padre veramente santo», dovrei morire sull’istante se capissi qualcosa. È che non capisco nulla!… È una cosa enorme, più grande di quanto si possa immaginare, che noi, povere creature da nulla – ma fosse pure tutta la creazione, tutti gli angeli insieme – proprio noi entriamo nel movimento di amore eterno, infinito onde il Figlio unigenito si volge al Padre suo. Siamo sul piano della Trinità, non siamo sul piano della divinità una. Perché il rapporto con la divinità una è il rapporto della creatura, ma il rapporto con le Persone divine è proprio soltanto della Trinità. Noi entriamo a far parte di questo mistero. Vi entriamo a motivo dell’Incarnazione del Verbo, vi entriamo per il fatto che il Verbo, incarnandosi, ci ha assunti tutti nell’unità della sua natura umana. Ha fatto di noi tutti il suo stesso corpo e ora tutti ci coinvolge in quell’infinito movimento di amore che lo porta al Padre: «Padre veramente santo!».

(…) Vivere la Messa – aveva ragione san Vincenzo Ferreri – è molto più di qualsiasi contemplazione mistica, molto più di qualsiasi esperienza mistica. Nessuna esperienza mistica può essere paragonata alla Messa. Se la viviamo! È che nessuno la vive! Nemmeno san Lorenzo da Brindisi che ci metteva quattordici ore per dirla! Ma anche dicendola così, non la si vive lo stesso. Perché è vivere la stessa vita di Dio. Ora, quando si meditano certi testi della Messa si rimane senza fiato: che cosa avviene? Avviene che Dio, il Padre, riceve il suo Figlio da me: Offerimus. «Ti offriamo, Padre santo, questa vittima». Lo si dice in tutte le preghiere eucaristiche.

Il Padre può essere senza il Figlio? Che Dio sia Dio lo deve a me! Capite che cosa vuol dire la Messa? Perché il Padre non può essere senza il Figlio e il Padre riceve il Figlio da me, dalle mie mani! Certo che me lo dà per riceverlo, perché il Padre non può mai essere separato dal Figlio suo, però lo riceve da me. Me lo dà realmente in tal modo che da me deve riceverlo: Offerimus! Ma ci rendiamo conto? Dio non è Dio senza di me! Dio ha voluto in tal modo unirmi alla sua intima vita che, in qualche misura, senza di me Egli non è. Queste parole sembrano bestemmie, ma le hanno dette dei mistici. Non so se conoscete il Silesio, il più grande mistico tedesco del secolo XVII. Lui dice precisamente questo: «Senza di me, Egli non è». Certo, sarebbe lo stesso, ma ha voluto in tal modo amarmi, in tal modo ha voluto legarmi alla sua intima vita che da me Egli riceve Se stesso. Se io vivessi la Messa!

È che la Messa mi trascende infinitamente. lo nemmeno capisco qualcosa. Ma se la vivessi anche un poco, sarebbe già l’andare oltre ogni esperienza mistica, perché nella Messa non solo si dà Dio a Dio in Dio, ma in tal modo si dà che, senza di me, Dio non sarebbe. Togliete una Persona divina alla Trinità e la Trinità stessa non esiste più. E il Padre mi dona il Figlio e me lo dona così realmente che da me ora deve riceverlo.

Si impone però che io abbia coscienza che il Figlio è mio, come diceva san Giovanni della Croce: «Gesù Cristo è mio e tutto per me». Dio è nostro! La prima cosa che dobbiamo realizzare nella Messa è precisamente questa. Dio in tal modo si dona alla Chiesa che la Chiesa possiede il Figlio di Dio come sua ricchezza, come sua gioia, come sua vita, come sua proprietà. lo non posseggo me, ma posseggo Lui.

(…) Noi non siamo: l’essere che abbiamo lo riceviamo da Dio. Ma il mistero che supera ogni grandezza è che io non ho da Dio soltanto l’essere creato, non ho soltanto questo mondo. Infatti me l’ha dato: sono re del creato. Oh, la povertà… la povertà è soltanto per essere ricchi. Perché dopo il peccato originale il possedere le cose ci fa essere posseduti dalle cose, schiavi delle cose. Nella misura che ce ne liberiamo, ne diveniamo padroni. Chi è stato più padrone del mondo di san Giovanni della Croce o di san Francesco d’Assisi? (…) C’è veramente in loro una presa di possesso della creazione. Ma che cos’è tutto questo? Anche se il Signore mi desse – e me l’ha data – tutta la notte stellata come a san Giovanni della Croce, che me ne farei? Dio non mi dona soltanto il mio essere, Dio non mi dona soltanto la creazione: Dio mi dona Se stesso.

Spiritualità carmelitana e sacramenti, OCD 2014, pp. 220-223

L’amore di Dio è eterno (1958)

L’eternità dell’amore divino di una cosa ci fa certi: che Egli ci ha preceduto. Non è conseguenza di cosa alcuna, l’amore di Dio: prima che noi fossimo, prima che il mondo fosse Egli ci amava. Ci rendiamo noi conto di cosa voglia dire questa verità?

Se Egli ci ha amato sempre non può che amarci sempre, perché l’amore onde Egli ci ama è l’amore stesso onde Egli si ama. Allora, se è l’amore onde Egli si ama, penso che non abbia mai amato me? Non certo me in quanto sono separato da Lui: amandomi Egli di fatto mi trae in Se stesso. L’atto dell’amore divino non è soltanto l’atto onde Egli si dona alla creatura, è l’atto onde Egli trae la creatura nel Suo intimo seno. L’atto dell’amore di Dio, l’atto dell’amore del Padre, è il dono dell’Unigenito Figlio al mondo, ma il dono dell’Unigenito Figlio al mondo che cos’è? È l’assunzione della natura umana da parte di Dio. Vedete dunque che l’atto dell’amore di Dio onde Dio si dona, è anche l’atto dell’amore onde Egli si ama, perché amando Egli porta veramente la creatura dentro di Sé. E proprio perché è così l’amore di Dio, non possiamo temere e non dobbiamo temere.

Egli ci ama come ama Se stesso. Se Egli ci amasse in modo diverso dubiteremmo di essere mai amati e di essere amati da Lui, ma se Egli ci ama come ama Se stesso il suo amore è indefettibile, nulla può stancarlo, nulla può far finire questo amore. Potrebbe non amarci più, quando non potesse amare più Sé.

(…) Egli ci ama di un amore eterno. Guardate che questa verità ci radica nel più intimo della vita  divina, ci radica nell’intimo centro dell’essere stesso di Dio; siamo come radicati, piantati nel cuore stesso della Divinità. Certo, il nostro peccato ci separa da Dio, ma non separa Dio dall’amore onde Egli si ama, non toglie a Dio di poterci amare di un amore eterno ugualmente, fintanto che noi rimaniamo quaggiù. Rimanere quaggiù vuol dire rimanere in un’economia di salvezza, in un’economia di chiamata. Che cosa vuol dire Vangelo? “Buona novella”, il messaggio dell’amore di Dio. Ora fin tanto che rimango nel mondo, questo messaggio io l’ascolto. Perciò i predicatori dicono male quando dicono: «Pensa, Dio potrebbe stancarsi!». Dio non si stanca mai: sei tu che cadendo con la morte in un mondo in cui tutto è definitivo e non vi è più un messaggio, in cui Dio non più offre l’amore, ma stabilisce le cose ormai per sempre là dove sono, sei tu che cadendo in quest’altra economia ti escludi per sempre da Dio. Ma fintanto che vivo quaggiù, io son chiamato ad essere incorporato a Cristo, ad essere assunto da Lui, ad essere uno con Dio. Non io soltanto, ma ogni uomo che vive! Dio ci ha amato di un amore eterno: «in caritate perpetua dilexi te» (Ger 31, 3). Quello che dice Dio a Israele non è che l’eco di quello che dice il Padre al Figlio suo, perché d’un amore eterno, come d’un amore divino, Dio non può amare che Sé. Il Padre il Figlio, il Figlio il Padre eternamente, inviolabilmente, indefettibilmente, immensamente di un amore unico ed immenso; è l’eco di quella parola, è anzi quella stessa parola, è anzi quel medesimo amore, perché io effettivamente sono veduto dal Padre come già una sola cosa col Cristo, anche se sono peccatore; altrimenti faremo offesa al Cristo, perché Gesù ha preso veramente sopra di sé tutti i miei peccati, non quelli soltanto che ho commesso, ma quelli che potrei commettere, tutti.

Sicché non c’è mai un ‘basta’ all’amore di Dio fintanto che vivo quaggiù.

Dal Ritiro a Venezia del 26 dicembre 1958

Una sposa che ti ami… (1990)

«Una sposa che ti ami» [cfr. terza Romanza di S. Giovanni della Croce]. Se il Padre vuol donare una sposa al Figlio, il Figlio sarà lo Sposo che si dona alla sposa, e la sposa dovrà donarsi allo Sposo. Nessun altro legame tra la sposa e lo Sposo, tranne quello dell’amore. «Una sposa che ti ami»: che cosa vogliono dire queste parole? Suppongono che l’unione nuziale si debba compiere in un duplice dono: il dono dello Sposo, perché la creatura non potrebbe esser la sposa del Figlio di Dio se il Figlio non amasse e si donasse per primo; ma anche il dono della sposa che risponde all’amore dello sposo col suo medesimo amore. In questo vicendevole dono si consuma l’unione.

È necessario che un medesimo amore regni nell’uno e nell’altro; in questo amore si unisce lo sposo alla sposa e la sposa allo sposo. Come lo Spirito Santo è l’Unità del Padre e del Figlio, così nello Spirito Santo si compie l’unione dello Sposo, che è il Figlio di Dio, con la sposa che è la creatura. È nell’atto di quell’amore che ordina l’uno all’altro gli sposi e realizza il dono vicendevole dell’uno all’altro, che si compie l’unione. Il Padre celeste, nel disegno di dare al Figlio una sposa, determina anche che la sposa lo ami. Non è solo lo Sposo che ama, anche la sposa amerà lo Sposo. E potrà amare lo Sposo di quell’amore che Egli “merita”, perché il suo amore è di Spirito Santo.

Una volta che la persona creata diviene la sposa del Cristo, avviene quello che dice il Padre: «La quale sposa, per il tuo valore, meriti di aver la nostra compagnia». Se tu sposi, tu perdi il tuo nome, prendi il nome dello sposo. Nel matrimonio la sposa perde il suo nome e acquista il nome dello sposo. Per il valore e la dignità dello Sposo, la sposa stessa entra ora nel mondo di Dio, «in compagnia» non solo del Figlio ma anche del Padre. Il Figlio stesso la solleva e la porta per la forza del suo Spirito. Se la sposa acquista la dignità dello Sposo, essa ora per il Padre conta quello che conta il Figlio di Dio. Il Padre non separa più quello che ha unito l’Amore. La sposa è veramente una cosa sola con lo Sposo, possiede la sua stessa ricchezza, vive la sua medesima vita. Per questo entra nel mistero inaccessibile di Dio, è ammessa a vivere una sua comunione col Padre. Inseparabile dal Figlio, essa in Lui diviene inseparabile anche dal Padre. Dal Padre essa viene generata nella generazione stessa del Figlio, col Figlio essa vive nell’Abisso di Dio, in pura relazione di amore al Padre. Non si moltiplicano le Persone divine, ma la sposa non è più estranea alla compagnia dei Tre, la sua vita è la vita stessa di Dio.

Il disegno di Dio dipende tutto dalla libertà dell’amore, dall’amore del Padre che vuol donare una sposa al suo Figlio, dall’amore del Figlio che gradisce la sposa. La libertà tuttavia non toglie nulla alla realtà dell’amore. Non sarebbe amore se non fosse libero, ma perché è l’amore di Dio, è anche un amore infinito, e nulla esclude nel dono che Dio fa di Sé come Sposo alla sposa.

Se la sposa si nutrirà del medesimo pane del Padre, allora conoscerà il suo Sposo come lo conosce il Padre e in questa conoscenza godrà del suo possesso. Nel possesso dello Sposo, essa vivrà la pienezza di tutti i suoi beni, come li conosce e li gode il Padre: «affinché conosca i beni che io ho in tal Figlio, e con me si feliciti della tua grazia e leggiadria».

Davvero, come scrive l’apostolo Giovanni, «il Figlio di Dio è la vita eterna», ed è nel Figlio di Dio che l’uomo possiede questa vita che è la vita anche del Padre. Il Figlio si darà alla sposa e diverrà tutto il suo bene come Egli è il bene del Padre. La vita della sposa non è che lo sposo. La conoscenza di Dio non può moltiplicare Dio in una sua immagine vana, la sua conoscenza vera non può essere che il possesso di Dio, non può essere che la sua dimora nell’uomo.

Alle parole del Padre il Figlio risponde: «Molto lo gradisco, Padre». Libertà nel Padre, libertà nel Figlio. È libero l’amore del Padre nel creare e nel voler dare una sposa al suo Figlio, è libero l’amore del Figlio che fa sua la volontà del Padre.

La teologia spirituale di San Giovanni della Croce, pp. 115-117