mercoledì, Giugno 07, 2023

La nostra vita è il mistero pasquale

Adunanza del 3 aprile 1958 (Giovedì Santo )

Cerchiamo di non distrarci, di prepararci alla liturgia di oggi, che è partecipazione al mistero del Cristo. Cristo fa presente questo mistero non come uno spettacolo, ma rinnovandolo in noi: ci inserisce in questo atto, di cui noi siamo attori piuttosto che spettatori.

 La liturgia pasquale deve chiamarci a vivere tutta la vita questo mistero. Alla nostra consacrazione non possiamo rispondere che in quanto viviamo questo mistero, perché si è sempre detto che la consacrazione religiosa non è un’altra consacrazione dalla consacrazione battesimale, ma è una consapevole e libera accettazione di quegli obblighi che derivano a noi dalla consacrazione battesimale. E gli obblighi sono uno solo, ma uno che investe tutta la vita: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente». Questo noi abbiamo promesso il giorno del battesimo e nessuno può andare oltre l’adempimento di questa legge. In fondo, questa legge è stata adempiuta soltanto da Cristo: Lui solo totalmente si è ordinato a Dio, in forza precisamente dell’assunzione che il Verbo ha operato di questa natura, onde la natura umana, nel Cristo, è stata ordinata totalmente al Padre.

 Vivere questi obblighi, vivere questa consacrazione battesimale importa per noi vivere la morte e la risurrezione di Gesù. Già san Paolo nella lettera ai Romani fa vedere come noi siamo battezzati nella sua morte e il battesimo è anche una partecipazione alla risurrezione, quando emergendo dalle acque l’anima risorge rinata dal bagno di vita.

 Il battesimo (…) ci ha dato una partecipazione al mistero del Cristo onde noi partecipiamo veramente al mistero dell’incarnazione divina; però, questo essere inseriti nel Cristo non ci fa vivere ancora personalmente il suo mistero, non dice una nostra partecipazione volontaria, libera, cosciente, piena, personale, a questo mistero. La consacrazione che abbiamo fatto in seguito, invece, è l’accettazione degli obblighi del battesimo per un impegno volontario di portare fino alle ultime conseguenze, di rispondere, insomma, a tutte le esigenze divine di morte e di resurrezione.

 Ora, questa morte e questa resurrezione noi la possiamo vivere soltanto nella misura che siamo uniti a Gesù; è inutile pensare di vivere la consacrazione religiosa se noi non vediamo questa consacrazione religiosa come l’atto onde noi ci inseriamo nel Cristo, viviamo in unione con Lui.

 Vivere la nostra consacrazione religiosa è impegno costante di unione con Cristo, è impegno costante di partecipazione al mistero pasquale. L’atto che stiamo per compiere nell’assistere alla Messa è l’atto sociale più alto, più grande, più significativo, ma anche più efficace, di tutto quest’anno che noi viviamo; e così la comunione pasquale che noi stiamo per fare stasera è l’atto più grande di tutto l’anno – dico la comunione di stasera, ma non separo la comunione di stasera da quella di domenica e da quella del Sabato Santo, come non separo la partecipazione alla Messa di stasera dalla partecipazione alla Messa di domani e del Sabato Santo. Non posso pretendere che tutti siate presenti il Sabato notte; per questo è importante che almeno alla prima Messa pasquale, del Triduum Paschale, siamo tutti presenti. E coloro che non sono presenti si sentano presenti con noi, vivano con noi questo mistero! E il perché è chiaro: tutta la nostra vita non è che una partecipazione al mistero che vien celebrato, non è che il far nostro quel mistero al quale noi assistiamo, non è che l’inserimento sempre più profondo in questa Presenza che la liturgia stabilisce, realizza.

 Vivere questo, per sentire che non siamo più noi poveri uomini, per sentire che non soltanto non siamo staccati fra noi. La partecipazione al mistero cristiano fa la comunità, perché crea l’unità nostra, onde noi siamo tutti un solo Gesù, un solo Cristo, ma non soltanto questo: fa sì anche che noi non possiamo più vivere una nostra vita né personale né puramente umana. La nostra vita è la vita del Cristo, la nostra vita non ha altro valore, altro significato: è la vita del Cristo. Con quale rispetto noi dobbiamo usare di noi stessi, con quale sentimento di riverenza dobbiamo renderci conto della grandezza di ogni nostra giornata! È facile, ed è comodo, adorare Gesù nel tabernacolo, perché questo è significare una distinzione da Lui, una nostra separazione da Lui – Tu sei l’Altro che adoro. È molto più difficile, invece, vivere questa unità col Cristo onde noi dobbiamo usare con noi la massima riverenza, come di cosa sacra, perché in noi è Lui che vive, in noi è Lui che si fa presente.

La nostra vita è il Mistero di Dio.

Aprirci ad accogliere Dio che viene (1984)

(,..) Crediamolo anche in questo momento: Egli è nato ed è per noi. Abbiamo cantato all’inizio dell’Ufficio delle Letture: «Christus natus est nobis – Cristo è nato per noi». Per noi, per essere nostro! Non dubitiamo del dono di Dio! Certo, noi dobbiamo accogliere questo dono in un sentimento di profonda umiltà, nel sentimento cioè di una gratuità assoluta del dono divino, perché il dono di Dio non suppone in noi nessun merito, suppone soltanto il peccato. Egli è disceso precisamente per donarsi a noi peccatori. Quello che dice san Paolo a proposito dall’amore di Dio, che si manifesta nella morte di Cristo, è vero già nella nascita di Gesù: «In questo si prova l’amore di Dio per noi: che essendo noi peccatori, Egli è nato per noi» (Rm 5, 8). Non solo «è morto», dice san Paolo; anche «è nato». Tutto il prodigio, tutta l’immensa bontà di Dio che si manifesta nei misteri del Cristo, suppone in noi non virtù, non bontà, ma solo la miseria e il peccato.

Possiamo noi crederlo? Siamo così capaci di credere da superare la vergogna di sentirci ancora tutti contaminati dal male? Dobbiamo superare questa vergogna in una fede viva; dobbiamo cercare, non di riconoscere il nostro peccato, ma di riconoscere che immensamente più grande è la misericordia di Dio e, peccatori quali siamo, aprirci ad accogliere questo dono infinito di misericordia che Egli ci fa.

Sì, Lui stesso ce l’ha insegnato. Perché non credere alla sua parola? Non ha detto forse che dobbiamo saper perdonare, a imitazione di Dio, settanta volte sette (Mt 18, 22), cioè che ogni qualvolta l’anima si apre a Dio, Egli la colma di bene?

Che la nostra anima si apra in un sentimento vivo della propria povertà spirituale, della propria miseria, del proprio peccato, per accogliere questa misericordia infinita! (…) Oh, davvero un abisso immenso di amore è Dio verso l’uomo; veramente noi non potremo mai giudicare quanto grande sia la bontà che Egli ci porta, la misericordia che Egli ha verso di noi! Sembra così inconcepibile riuscire a crederla, che cerchiamo sempre di proporzionare la misericordia di Dio ai nostri pensieri. Sì, possiamo pensare che Dio sia buono, ma non riusciremo mai a pensare quanto Egli sia buono. La nostra intelligenza si rifiuta e, d’altra parte, non potrebbe la nostra intelligenza stendersi quanto si stende l’immensità di questa misericordia infinita.

Dobbiamo aprirci umilmente ad accogliere Dio che viene, dobbiamo veramente credere a questo amore. E nonostante l’esperienza delle nostre cadute, credere che Egli è tutto nostro, tutto per noi; che Egli non ci rifiuta nulla, che tutto quello che Egli è, è il suo dono di amore. Non le sue cose Egli ci dà, ci dona Se stesso. In nessun altro modo Egli avrebbe manifestato più chiaramente di voler essere Lui stesso la nostra ricchezza se non nascendo da noi, nascendo per noi.

Ecco il Natale, miei cari fratelli. Cerchiamo davvero di vivere questo mistero in una fede profonda, che ci doni di vivere la gioia del Natale pur vivendo sempre una vita di povertà, pur vivendo sempre una vita di umiltà e forse anche una vita di tante imperfezioni. Chiediamogli almeno che queste imperfezioni non siano pienamente volontarie e che la nostra miseria faccia sì che veramente a Lui solo risalga la lode, il riconoscimento della sua bontà infinita che si dona senza misura. E si dona anche a coloro che non meritano nulla, anche a coloro che a noi sembrerebbero divenire di giorno in giorno sempre più meritevoli di essere rifiutati da un amore che calcolasse, ma invece non sono rifiutati da un amore che non condanna alcuno, perché non conosce riserva.

Ecco, miei cari fratelli, quello che a noi stanotte dice il mistero di questo Natale.

Conclusione dell’Omelia della Messa di Natale, 24 dicembre 1984

Contenti di Dio, ma non di noi stessi (1984)

Due sono le feste che a noi sono particolarmente care, perché ci ricordano quello che soprattutto siamo chiamati a vivere in forza della nostra vocazione, se pure non l’abbiamo perduta: è una vocazione alla preghiera, all’intimità con Dio, alla contemplazione. Se noi avessimo fiducia nella grazia divina, ci sarebbe un po’ da vergognarci a parlare di queste cose.

Si parlava stamani dell’importanza che ha la memoria nella vita cristiana. Il “ricordo di Dio” (espressione cara a San Basilio Magno, che è in fondo il Dottore della vita contemplativa nell’Oriente, il maestro del monachesimo orientale) è precisamente questo lento essere investiti dalla presenza di Dio in noi, cosicché noi abbiamo coscienza precisamente di questa sua Presenza nella nostra vita. Bisogna che sempre più, sia pur lentamente, questa invasione di luce penetri in noi e ci trasformi, faccia sì che tutta la nostra vita sia un’adesione pura alla luce divina. Non si tratta di far grandi cose, anzi la vita contemplativa semplifica. Se ora dite tante preghiere ne direte meno, però direte una preghiera che investe tutta la vita, ed è, come diceva san Gregorio di Nissa, il “sentimento di Dio”: di Dio non come una presenza a noi estranea, non come una presenza contigua davanti a noi, ma come una Presenza che ci investe nell’intimo. Ci sentiamo posseduti da Lui, sentiamo che la sua presenza in noi ci trasforma, diveniamo come lo strumento della sua azione. Posseduti dal Signore, sentiamo che Egli vive attraverso le nostre potenze, pensa con la nostra intelligenza, ama col nostro cuore, opera con le nostre mani.

Fintanto che non viviamo questo non possiamo dire di vivere la nostra vocazione nella Comunità. Bisogna che veramente il Signore ci strappi a noi stessi ed Egli stesso viva in noi. Siamo un solo corpo con Lui e, se siamo un solo corpo con Lui, è Lui che deve vivere in noi. Le parole di san Paolo dovrebbero essere vere per ogni cristiano, ma debbono assolutamente esserlo per noi, se non vogliamo essere dei mentitori: «Vivo io ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

Ed è questo che dobbiamo chiedere ogni giorno al Signore. Pensate: riceviamo tutti i giorni la Comunione! Possibile? Ma noi giochiamo! Che possiamo dire della nostra vita? Che abbiamo giocato tutta la vita. Riceviamo il Signore tutti i giorni e ancora il Signore non ci ha trasformati in Sé! Oh, lo so bene che siamo delle povere creature, delle misere creature, ma so anche quanto questo dipende da noi, dal nostro poco impegno, dalla nostra scarsa volontà e soprattutto dal nostro orgoglio; crediamo di aver fatto tutto e ancora abbiamo da cominciare la vita cristiana. Meglio di noi sono i peccatori, i pubblici peccatori; non lo credete? Io lo credo. È mai possibile che noi si possa parlare di queste cose ed essere ancora così lontani dall’averle realizzate? (…).

Basterebbe davvero che Egli ci possedesse, basterebbe che noi ci abbandonassimo alla sua azione. Una cosa sola si impone: la docilità allo Spirito Santo. Perché vedete, miei cari fratelli, ha ragione il padre Lallemant quando dice che per paura di essere infelici noi scegliamo di essere infelici tutta la vita: abbiamo paura cioè di donarci a Dio. Proviamo un certo sgomento, vogliamo tenere il timone nelle nostre mani, vogliamo essere noi a guidare il nostro cammino, e così non ci doniamo a Dio, e così rimaniamo infelici. Credo infatti che nessuno di noi sia contento interamente di sé. Oh, certo, noi dobbiamo essere contenti di Dio, se non altro per averci sopportato fino ad oggi! Noi dobbiamo essere certo contenti di Dio, per il suo amore che mai ci ha sottratto; anche stasera ci chiama, anche stasera Egli ci dice: «Vuoi tu essere per me? Io sono tutto per te, io mi donerò tutto a te, e tu in cambio vuoi darmi te stesso?». Non possiamo certo non essere contenti di Dio, ma chi di noi può dire di essere contento di sé? Chi è contento di sé non può essere altro che un disgraziato! I santi, quanto più erano santi, tanto più sentivano l’infinita distanza che li separava da Dio. E noi?

Miei cari fratelli, non dobbiamo disanimarci. Che cosa chiediamo tutti i giorni nella preghiera di Sant’Efrem? «Liberaci dallo spirito di oziosità, dallo scoraggiamento»: è la seconda cosa che chiediamo. Prima di tutto l’oziosità, perché dobbiamo metterci d’impegno; non dobbiamo giocare, non dobbiamo dormire. Passano gli anni e dobbiamo impegnarci sul serio non soltanto ad ascoltare Dio, ma anche ad abbandonarci a Lui.

Poi lo scoraggiamento. Dio è l’onnipotenza: abbiamo perso tutti questi anni? Coraggio! Anche in meno di quattro anni Lui può farci santi.

Omelia per la festa della Trasfigurazione, 6 agosto 1984, Firenze

Vivere la Settimana santa

Tutto l’anno liturgico non fa che render presente il mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo. La Messa è l’annuncio della morte e la vita della Chiesa è iniziazione a questo mistero e applicazione dei suoi frutti. Il Battesimo ci rende atti ad assistere e a partecipare al sacrificio di Gesù; tutti i sacramenti sono una grazia che ci fa partecipare al mistero di Cristo. Ma una grazia sola ci è concessa: quella di esser cristiani, di rinnovare e continuare in noi il suo mistero, il mistero dell’Incarnazione, della Morte e della Resurrezione di Gesù. Non c’è che una grazia e questa è lo stesso Gesù.

Ma questo dono come ci viene se non nel mistero della Morte e della Resurrezione dì Gesù? Quando Dio ci dona il Figlio suo unigenito se non quando Egli morì sulla croce? Ecco la manifestazione dell’amore di Dio per noi! Il testo seguente ci fa contemplare l’amore di Dio per noi nel mistero della Croce: «Noi abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi perché Egli ha dato per noi la sua vita», dice san Giovanni (cfr. 1 Gv 3, 16). L’amore di Dio si manifesta nel sacrificio: quando Gesù è morto. La grande grazia, l’unica grazia, è la morte di Gesù, l’offerta del sangue del Signore, del suo Corpo immolato; del suo Sangue versato – della carne e del sangue – offerta continuamente fatta presente in tutti i tempi e in tutti i luoghi (…).

I giorni che stiamo per vivere sono di una grandezza unica in tutto l’anno. Si celebra un avvenimento che supera ogni avvenimento, una vittoria che eclissa ogni vittoria: tutto cessa perché la morte di Gesù tutto riassume in sé. Questi sono i giorni più santi: è mai possibile vivere altri avvenimenti? Se tutta la realtà, la storia altro non sono che la morte di Gesù, il cristiano è richiamato dalla Chiesa a vivere e a inserirsi nel mistero di Cristo. Questi sono giorni di veri esercizi spirituali; quando la Chiesa veramente viveva, viveva la liturgia di questi giorni. Cosa possono rappresentare certi esercizi spirituali in confronto a quello che ci insegna il mistero di Cristo? Dobbiamo dimenticar tutto, sottrarci ad ogni pensiero estraneo: come la vita del cielo è il consumarsi di questo mistero nella gloria, così anche noi dobbiamo vivere una vita di resurrezione nella morte di Gesù.

Questi giorni esigono che l’anima s’immerga, precipiti nel mistero di morte e di resurrezione che si celebra ora in un medesimo istante perché ora il mistero di Cristo è unico: è la morte e la resurrezione, non ci sono momenti diversi. Anche la liturgia di oggi (Domenica delle Palme) parla di morte e di resurrezione e questo anche il Venerdì Santo. La liturgia ha un senso eterno: ci pone sul piano di Dio, è morte e resurrezione, è assorbimento della natura umana di Gesù nella gloria del Padre. «Noi ti celebriamo, o Cristo, perché è per la tua Croce che la gioia è venuta in tutto il mondo»; il giorno di Pasqua, in cui tutto ritorna intimo, ha meno espressioni di gioia e di gloria che il Venerdì Santo, giorno in cui col canto degli inni Vexilla Regis prodeunt e Pange lingua gloriosi si dice il trionfo del Cristo vittorioso. Nel Cristianesimo non c’è morte senza resurrezione, non c’è sofferenza senza gloria: è l’immersione nell’eternità, dove tutto dura e si identifica. Dobbiamo vivere il mistero di Cristo uscendo dai nostri modi umani, viverlo come il mistero che tutto unisce e riassume in una pura, immensa unità. La Settimana Santa non è soltanto la meditazione del dolore di Gesù: non si deve dissociare la Morte di Cristo dalla sua Resurrezione. (…).

Vivere la Settimana Santa vuol dire precipitare in Dio, vivere nell’eternità, morti a noi stessi e a tutto per vivere unicamente in Dio e vivere in Lui la sua stessa vita. È così che noi partecipiamo alla Morte di Gesù e partecipiamo alla sua Resurrezione. Umiliazione ed esaltazione (vedi Epistola di oggi: Fil 2, 5-11). Sempre questo mistero parla di morte e di gloria, mistero unico, mistero dell’uomo e di Dio che importa umiliazione e gloria, morte e vita, uomo e Dio.

Usciamo dagli avvenimenti presenti, usciamo nella presenza di Dio! Viviamo lo stesso mistero di Cristo! Dobbiamo essere noi l’Agnello immolato nel cospetto della maestà divina, sull’altare sublime della gloria del Padre. Questa nostra partecipazione esige il raccoglimento se vogliamo veramente precipitare in questo mistero che la liturgia ci insegna a vivere nell’unità dei suoi elementi; nel Venerdì Santo vivremo l’unità di questo mistero nella Morte e nella Resurrezione. Il Giovedì Santo vivremo l’unità di Dio e degli uomini; il Sabato Santo, nel trionfo della Resurrezione, vivremo anche l’angoscia, l’attesa di tutta l’umanità che invoca l’adempimento delle promesse divine, il compimento del disegno di Dio nella Resurrezione di Gesù, che è già avvenuta e che pure deve sempre avvenire.

Comunità dei figli di Dio! La nostra dimora è il seno del Padre, la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ecco la patria, la dimora, la gloria nostra.

Adunanza 6 aprile 1952 a Firenze

Vivere la Quaresima (1985)

Che cosa vuol dire vivere la Quaresima? Non solo vivere l’ascolto della Parola di Dio, ma vivere anche la preghiera, l’aspirazione a Lui. Non dovete tanto moltiplicare le vostre formule, ma dovete far in modo che la vostra aspirazione a Dio sia continua e viva.

Non avete bisogno di moltiplicare le parole. Tante volte, moltiplicando le parole, si vive meno intensamente l’atto del nostro dono a Dio. Anche nell’amore: tanto più è profondo, tanto più è silenzioso, tanto più tende al silenzio. Così è Dio: sentire che tutta la nostra vita è questo continuo trasporto che ci muove incontro a Lui. Siete stati mai fidanzati? Quando eri fidanzato, eri come ossessionato dalla presenza di lei nella tua vita; tutta la tua vita era naturalmente ordinata a colei che tu amavi e lei che ti amava era ordinata a te. L’amore ci ordina. Ebbene, noi una volta che abbiamo ascoltato Dio, diventiamo parola, aspirazione a Lui, trasporto di tutto l’essere a Lui, con tutte le nostre potenze tendiamo a Lui: nei nostri sentimenti interiori, nella nostra intelligenza che lo vuole conoscere, nella nostra volontà che lo ama, in tutto l’essere nostro che si eleva sempre più verso il Signore.

Noi dobbiamo vivere in questa Quaresima una preghiera più viva e continua. Guardate che non si tratta tanto di dire più preghiere, quanto di vivere più intensamente le preghiere che fate. I primi cristiani – secondo la Didaché – dicevano soltanto tre Pater Noster al giorno, ma li dicevano bene (…).

S’impongono poi altre cose: la penitenza, la mortificazione, il digiuno. Che cosa sono questo digiuno, questa penitenza, questa mortificazione? È liberarci dalle passioni che ancora tiranneggiano la nostra anima e ci impediscono l’ascolto e la preghiera. Fintanto che noi siamo schiavi di noi stessi, schiavi delle nostre passioni, non siamo disponibili a Dio. Di qui l’importanza che ha il tempo della Quaresima per operare questo distacco. Ora la penitenza, la mortificazione più grave, non è tanto la mortificazione corporale, quanto la mortificazione dello spirito. Che cosa chiedo come mortificazione dello spirito? Non alimentate il vostro spirito di curiosità e di superficialità.

Non dovete moltiplicare le vostre opere, tanto meno moltiplicare tutto quello che fate per sottrarvi a questa Presenza. Letture frivole, televisione… è impossibile arrivare ad essere anime di preghiera, anime di ascolto, se perdete molto tempo nel guardare delle cose che hanno maggiore presa su di noi delle semplici letture. Le immagini hanno maggiore efficacia d’imprimersi nella nostra fantasia, nella nostra immaginazione di quello che può essere una semplice lettura. Ecco allora che si vive soltanto di riflesso: quello che abbiamo immagazzinato con dei rapporti frivoli, con delle letture più o meno leggere, con lo stare alla televisione senza motivo. Dovete naturalmente conoscere quello che avviene nel mondo, ma, quando in questa Quaresima voi aveste aperto le televisione per vedere il telegiornale, può bastare. Questo è il digiuno vero che il Signore vi chiede. È molto meno importante il digiuno corporale del digiuno dello spirito. Diceva uno dei più grandi maestri della spiritualità italiana, Battista da Crema (1460-1534), che una delle cose che maggiormente danneggiano la vita spirituale è la curiosità, è lo spirito che divaga qua e là e non si raccoglie mai in Dio. Ora noi viviamo proprio questa curiosità: spesso siamo portati via da questa curiosità che minaccia l’integrità e la unità nella nostra vita interiore.

(…) Allora, prima di tutto, vi raccomando il digiuno dello spirito. Non divagate, non cercate dei motivi per passare il tempo, come si dice. Oltre tutto il tempo passa lo stesso. Perciò non si tratta di passare il tempo: ci pensa il tempo da sé a passare. Voi invece dovete mantenervi fermi davanti al Signore. Per quanto è possibile, raccogliete la vostra vita in questo ascolto di Dio. L’ascolto di Dio è la maggiore penitenza perché il nostro spirito, così superficiale e distratto, vorrebbe sempre qualche cosa di nuovo che lo arricchisca. In realtà invece non lo arricchisce: lo impoverisce.

Ritiro a Merano del 3 marzo 1985

Epifania (1954)

Si è detto sempre che l’Epifania è una delle più grandi nostre feste. (…) La liturgia di questo giorno, celebrando le tre manifestazioni di Cristo, ci insegna come Gesù, nato nell’umiltà, nel nascondimento, nel silenzio, ora si manifesta: ai Magi, nel battesimo sul Giordano, alle nozze di Cana. Dei tre avvenimenti che la Chiesa celebra in questo giorno, uno richiama particolarmente la Comunità: Gesù si manifesta a Cana, a un banchetto di nozze. La prima manifestazione di Gesù si compie nel seno di una comunità, non alle anime singole, ma agli uomini in quanto sono legati da vincoli fraterni, in una comunità. Si accentua così il carattere comunitario della vita cristiana. Gesù è sempre in mezzo ai suoi, il primo suo atto di Salvatore lo compie in mezzo ai suoi. È il suo intervento che crea la comunità stessa, che fa piena e perfetta la gioia degli invitati.

(…) Questa festa ci dice che termine della vita cristiana non è la mortificazione, non la passione, ma la gioia, l’unione nuziale con Cristo. C’è una gioia che il cristiano non può mai deporre; se il cristiano abdicasse a questa gioia non conoscerebbe più Gesù. Non possiamo perdere questa gioia senza perdere Gesù stesso. Ma se l’anima vivrà questa intimità con Lui, anche se conoscerà tutte le tristezze della terra, tutte le tristezze non potranno mai togliere all’anima la certezza dell’amore di Dio, la certezza della presenza di Gesù. Ed è in questa certezza che l’anima possiede tutta la pace e la gioia. L’Epifania è festa di pace, di gioia, d’intimità.

L’Epifania non è solo una festa che ci impegna a rivelare il Signore, ma è manifestazione anche a noi di Gesù: (…) con la fede ogni avvenimento porta il Signore, in ogni creatura risplende il volto di Gesù. Allora tutta la vita è per noi una continua manifestazione di Gesù, una gioia perenne. Si mostra nella grotta di Betlemme, poi Giovanni lo mostra «Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1, 29) quando Gesù si sottopone a un battesimo di penitenza, quando in tutto uguale agli altri si sottopone anche agli altri.

Guardatelo alle nozze di Cana! (…) Partecipa alla gioia del banchetto nuziale: l’avvenimento che sembrava più profano, è santificato da Gesù. Non dobbiamo cercare il nostro Dio, il nostro sposo, solo in avvenimenti grandiosi: Egli è con noi qualunque cosa facciamo. Non sono gli avvenimenti grandiosi che lo rivelano a noi, ma Egli fa grandi i piccoli avvenimenti. Egli si è rivelato nell’umiltà e noi dobbiamo riconoscerlo. Dobbiamo saperlo riconoscere in tutti i nostri bambini; nei nostri nipotini, nelle persone di servizio, in chiunque; dobbiamo saperlo riconoscere in ogni anima che si avvicina a noi. Dovremmo stare davanti ai fratelli come davanti al santissimo Sacramento. Invece si va in chiesa, si fanno molte genuflessioni, e col prossimo siamo sgarbati. Facciamo sentire ai nostri fratelli che siamo disposti a morire per loro: in casa, per la strada, in ufficio, a scuola, al bar; sia sempre il nostro atto un atto di amore, un atto religioso. Sappiamo riconoscere Gesù in ogni avvenimento, in ogni creatura. Come tutto risplende allora, come tutta la vita diventa luminosa e soave! (…)

«Hai veduto un fratello, hai veduto il Signore»: è una frase riportata dai primi Padri della Chiesa. (…) Dobbiamo saperlo trovare Gesù non solo sul volto del bambino dove in qualche modo risplende, ma in tutti. Sul Giordano si è mescolato ai peccatori, dunque anche nei peccatori dobbiamo saper riconoscere Gesù: anche in loro devo saperlo riconoscere.

E non solo negli atti più sacri della vita, ma anche negli atti più profani, così come ad un banchetto di nozze. Avere la visione di Gesù qualunque cosa si faccia: ufficio, scuola, casa, strada, mercato. Non solo all’adunanza religiosa, ma anche nei salotti mondani. (…) Allora tutta la vita è una festa che continua, perché in tutta la vita si rinnova questa manifestazione di Gesù all’anima, a noi. Tutta la vita sarà purezza, pienezza di gioia, intimità dolce d’amore.

Che il Signore ci conceda di vivere questa continua gioia. L’anima che lo contempla, non vede più che Lui in ogni creatura, Lui che in ogni creatura ci ama, ci dice il suo amore e ci manifesta i tesori della sua anima.

Adunanza del 6 gennaio 1954 a Firenze

Amen! Vieni Signore Gesù! (1988)

Miei cari fratelli, è la Pasqua, e la Pasqua è veramente il dono di Dio ad ogni anima che lo voglia accogliere in sé. Certo, per noi che viviamo nel tempo, un incontro reale con Dio può scuoterci fin nel profondo. Non siamo ancora adattati a questo incontro con la divinità.

È giusto che viviamo nella penombra della fede, perché il nostro organismo umano non reggerebbe all’incontro con la luce infinita, all’incontro con questo Dio che è un fuoco inconsunto e immenso. E per questo si dovrà vivere l’attesa nell’umiltà, nel silenzio; ma l’umiltà e il silenzio nel quale dobbiamo vivere è un silenzio pieno di speranza, è un silenzio sempre più desideroso dell’incontro finale.

(…) Vi ricordate il saluto che era proprio della Comunità agli inizi, quando la Comunità è stata fondata? «Ecco, il Signore viene!». «Amen! Vieni Signore Gesù!». Sono le parole del Vangelo a cui rispondono le ultime parole dell’Apocalisse (Mt 25, 6; Ap 22, 20). Sono le parole che dovrebbero essere l’espressione più viva della nostra vita cristiana, perché nella nostra vita cristiana dobbiamo sentire e sapere che Egli viene. Chi è Dio per noi se non «Colui che era, che è e che viene» (Ap 1, 8)?

«Ecco, il Signore viene»: ecco il saluto. E l’anima si apre alla venuta del Cristo in un desiderio vivo di amore: «Amen! Vieni Signore Gesù!». È la preghiera dei primi cristiani; e perché non dovrebbe essere la preghiera dei cristiani di oggi? Voi sapete come finiva la preghiera eucaristica della Didaché: «Venga la tua grazia e passi questo mondo». Finisca questa scena in cui viviamo soltanto un’attesa, in cui viviamo soltanto l’esperienza dell’esilio, di una lontananza da Colui che amiamo. Ma domani che festa sarà! Quando i nostri occhi si apriranno e lo vedranno, Lui che abbiamo atteso fin dalla nostra giovinezza, Lui al quale abbiamo donato tutta la vita. Quale festa sarà! Ma la festa è già cominciata, perché Egli già ora viene per noi: nell’umiltà, nel silenzio, Egli è presente (…).

Stasera noi abbiamo acceso il cero pasquale nella notte del tempo. E il cero si è alzato su di noi: «La luce di Cristo!» (Lumen Christi) abbiamo gridato e ci siamo prostrati, perché proprio nel cero abbiamo visto il simbolo di Lui, noi abbiamo contemplato e vissuto il nostro incontro con Cristo. Egli è venuto. È venuto come nel Cenacolo, è venuto come all’alba del giorno di Pasqua apparve alle pie donne. Secondo molti esegeti il Vangelo che si legge questa notte non sarebbe che la narrazione della prima apparizione di Gesù: quell’angelo vestito di bianco, seduto sul sepolcro, sarebbe Gesù, il Gesù imberbe delle catacombe. Il Gesù glorioso, il Gesù della Resurrezione non ha più la barba, è divenuto giovane della giovinezza dell’eternità. Così hanno rappresentato nelle catacombe il Cristo risorto e così lo vide la prima generazione cristiana.

Quando apparve ai discepoli, si presentò così come lo avevano conosciuto, ma le pie donne lo videro nella sua gloria, nella sua giovinezza, vestito di bianco, come trionfatore. Il bianco è il colore del trionfo, della vittoria. Lo videro trionfatore della morte e ne ebbero paura. Anche loro, povere donne, non avevano la possibilità di incontrarsi con questa gloria improvvisa che era balenata ai loro occhi. Ebbero paura e scapparono. Dovette poi il Signore adattarsi alla loro povertà e apparire come un viandante che andava per la sua strada quando si mostrò ai due discepoli (cfr. Lc 24, 15-16); dovette apparire come un ortolano a Maria di Magdala (cfr. Gv 20, 15)… Il Signore si adatta alla capacità povera che noi abbiamo di poterci incontrare col mondo divino.

(…) Chiediamo al Signore che egli si adatti anche con noi alla nostra povertà, perché se egli vuole entrare nella nostra vita, non debba spaventarci, non debba creare in noi un senso di smarrimento (…). Se Egli ci deve apparire, che Egli apparisca come sulle rive del lago invitandoci a mangiare quel pesce che Egli aveva fatto pescare, ma che aveva già pronto arrostito per la colazione dei suoi discepoli.

Oh! Che Egli ci prepari davvero il suo banchetto! Ce lo prepara stasera con la santa Messa. Non andremo noi tutti a fare la comunione? È il banchetto a cui Egli ci invita. (…). Accogliamolo in noi con umiltà vera! Accogliamolo in noi con fede profonda! E sia la nostra vita, da oggi in avanti, una continua comunione con Lui.

Omelia della notte di Pasqua, 2 aprile 1988, Triduo pasquale a Desenzano (BS))

Vivere il mistero del Natale (1992)

L’Incarnazione è una cosa che ci riguarda e ci riguarda personalmente; e ci riguarda più di qualsiasi altra cosa. Certo il mistero della Trinità è grandissimo, ma può interessarci solo attraverso il mistero dellIncarnazione; perché senza il mistero dell’Incarnazione Dio rimane trascendenza infinita.

Non importa nemmeno che io sappia che egli è Padre, Figlio e Spirito Santo, perché non mi interessa più. Vive in una eterna solitudine, nella sua trascendenza infinita, in un silenzio che non è morte, perché è vita infinita; ma è una vita che per me è e rimarrà sconosciuta. Dio si fa presente per me quando si fa uomo; quando lega questa sua vita divina a una natura umana, fragile come la mia, passibile come la mia, limitata come la mia.

(…) Miei cari fratelli, la prima cosa dunque che dobbiamo vivere in questo Natale è questa comunione che si è stabilita fra l’uomo e Dio. Anche noi, come Gesù, viviamo una condizione umana di povertà e di debolezza, ma tutto questo non ci impedisce più di credere e anche di sapere che nella nostra povertà e umiltà Dio vive con noi. (…) Non cé più questo abisso che separa la creatura dal creatore, che separa Dio dall’uomo. Viviamo una comunione di amore.

(…) È questo che noi dobbiamo vivere nel Natale: Dio è tanto buono che vuole aver bisogno di noi. Non siamo noi soltanto che abbiamo bisogno di lui, non siamo noi soltanto che aspettiamo questo dono immenso di amore da parte di Dio; è Dio che aspetta tutto da te. Maria gli dette la natura umana, Giuseppe la sua protezione, la sua difesa: un povero bimbo appena nato, con una fanciulla per madre che non poteva avere più di 16-17 anni, sola, lontana dal suo paese, bisognosa certamente di difesa. Dio chiede a noi una difesa, una protezione; chiede di poter nascere da te, di poter vivere di te.

(…) Chi è Gesù per te? Il Natale te lo dice: non è un amico, perché è ancora troppo piccolo per essere un amico; non è nemmeno uno sposo, perché non ci si sposa con uno che è appena nato; è il tuo figlio. Il Natale ti chiama a vivere questo rapporto, il rapporto soprattutto della madre con il figlio, il rapporto di Maria con Gesù. Devi vivere questo. Questo figlio che nasce, vuole da te tutta la tua tenerezza; non ti permette di dividere il tuo amore con altri. Egli pretende tutto, vuole tutto. Apre le sue piccole braccia perché vuole che tu lo porti sulle tue braccia; esige da te il dono di tutto il tuo amore, perché anch’egli tutto si dona a te. Questo vuol dire vivere il Natale. Il presepio sarà una bella cosa, può essere una bella cosa tutto quello che volete, ma più importante di tutto sarà sempre il vivere questo rapporto di amore.

Tu devi essere la Vergine che accoglie il bambino, tu devi essere Giuseppe che lo protegge, tu devi essere tutti coloro che hanno avuto un rapporto con il Cristo in quell’evento della sua nascita. Non vi sembra meraviglioso tutto questo? Può darsi che anche a voi avvenga, come a san Giovanni della Croce o come alla beata Cristina Ebner, di portarlo fisicamente sulle braccia. Cristina prese il bambino Gesù dal presepio e lo portò al refettorio cantando: ed ecco che il bambino divenne vivo nelle sue braccia. Come si verificò anche a Greccio per san Francesco: Francesco, vestito da diacono, prende il bambino e il bambino diventa vivo nelle sue mani. Perché non dovrebbe esser così? Ma anche se Gesù non volesse fare il miracolo di farsi sentire vivo, dovreste ugualmente dire con san Giovanni della Croce: “Signore Iddio, se di amore devo morire, questo è il momento”. Sì, perché Dio non ci può dare di più, quando ci ha dato se stesso, divenendo la nostra ricchezza vera, la nostra gioia più pura, tutto il nostro amore.

Ritiro del 20 dicembre 1992 a Firenze

Avvento: rivelare Cristo a un mondo vuoto di Dio (1957)

Il mondo è così vuoto di Dio! Gli uomini vagano in una tenebra spessa e non sanno dove andare. E noi viviamo vicino a loro e non ci rendiamo conto dell’angoscia che stringe la loro anima, non ci rendiamo conto del vuoto della loro vita.

Oggi piuttosto che contare le anime che conoscono il Signore, si potrebbero contare quelle che non lo conoscono, per le quali il Cristianesimo forse non è che un ammasso di superstizioni, una vaga speranza che essi non sanno giustificare. Essi vivono come nostri fratelli e non posseggono la ricchezza più grande della nostra anima: il Signore.

È soprattutto per renderci conto della nostra responsabilità verso di loro che viviamo l’Avvento, per renderci conto che dobbiamo essere noi la rivelazione di Cristo in un mondo pagano, che dobbiamo essere la luce del mondo, il sale della terra. E invece il Cristianesimo oggi sembra esser divenuto impotente a risanare l’umanità, sembra essere non più sorgente di calore, di vita, di luce, ma una vana reliquia di tempi passati. Nell’intimo dell’anima di tutti questi uomini è il pensiero, il timore che tutto sia finito e che nasca ora, per mezzo della scienza o della cultura, una nuova età; che tutto quel che i secoli passati ci hanno trasmesso siano sogni vani. Tutto sembra vuoto, solo un’angoscia profonda stringe le anime: il senso che né la tecnica né la filosofia né il benessere possano rispondere al desiderio del cuore. E allora gli uomini sognano una nuova religione “libera da miti”, come essi dicono, perché senza di essa sembra impossibile vivere quaggiù.

Di fronte allo smarrimento di questa moltitudine immensa (i veri cristiani sono oggi pochissimi anche fra noi) quanto più grave è la nostra responsabilità di messaggeri e testimoni di Cristo! Non possiamo essere contenti della nostra salvezza personale lasciando che questa massa si perda, non possiamo strapparci alla solidarietà che ci lega a loro. L’esser cristiani ci dà una responsabilità verso di loro, ci dà un compito immane: quello di rivelare a questi uomini Dio.

Noi siamo pochi e poveri, non siamo né geniali né potenti, siamo povera gente, umile gente. Che differenza vi è fra noi e i pescatori della Galilea? Ma proprio per questo deve ripetersi il miracolo di allora. Pochi, poveri e impotenti, noi dobbiamo essere la luce del mondo, la forza che lo solleva; altrimenti è segno che non crediamo neanche noi. Non abbiamo modo di salvare questo dono che ci è stato dato se non rivelandolo agli altri.

Venga dunque il Natale, e sia una nascita nuova di Gesù nel mondo, nella povertà e nell’umiltà delle nostre case e dei nostri cuori. Nasca il Signore in noi e si riveli al mondo: questa è la preghiera che oggi gli innalziamo. Chiediamo la santità, ma una santità che sia irradiazione di luce su tutta la creazione, non una santità che salvi noi soli e dia a noi soli la perfezione e la gioia. Se vogliamo una santità di questo genere Dio non ce la dona, perché non possiamo sottrarci dal compito di tutti coloro che hanno trovato il Signore: il compito di rivelarlo agli altri.

(…) S’impone una santità che, se deve esser proporzionata al bisogno del mondo, deve esser più grande di quella di tanti santi canonizzati, perché oggi è più grande il vuoto da colmare. I santi canonizzati in questi ultimi decenni, salvo pochi (santa Teresa del Bambin Gesù, il Curato d’Ars e pochi altri) non hanno dato al mondo l’impressione di una presenza divina. Il mondo non se n’è accorto. La nostra vita deve essere qualcosa di più. E il dir così non è presunzione da parte mia, perché io non considero voi ma il bisogno del mondo e la missione del cristiano.

(…) Questo è l’Avvento: impegno di essere noi quei santi, quei rivelatori di Cristo che il mondo aspetta e non vede.

Ritiro del 15 dicembre 1957 a Casa San Sergio (FI)

Conversione: un terremoto interiore (1968)

Siamo nella Quaresima: la Quaresima ci richiama alla penitenza. È con la penitenza che si è iniziato il ministero di Gesù.

Ma che cos’è precisamente la penitenza? Soltanto il pentimento di quello che possiamo aver fatto di male sarebbe ben poco per caratterizzare invece quello che con questo termine intende la Chiesa e intende il Signore. Il termine “penitenza” è una traduzione molto imperfetta di un termine greco che viene usato dagli evangelisti proprio per dire il contenuto della prima predicazione di Gesù, quando inizia il suo ministero.

Il termine greco è metánoia e voi potete capire già che cosa può voler dire. Nous è la mente, è lo spirito, anzi la psiche, l’anima, e meta vuol dire proprio un capovolgimento, un rovesciamento del nostro essere interiore.

Di qui voi capite che quando noi pensiamo che penitenza voglia dire soltanto pentimento dei peccati è troppo poco. Quando pensiamo alla penitenza come al complesso di azioni afflittive, mortificanti per la nostra natura, ugualmente si dice qualcosa ma non si dice quasi nulla, perché, quando si pensa appunto ad azioni afflittive, in generale si pensa a quelle azioni afflittive che non toccano affatto il nous, lo spirito, ma toccano il corpo.

Ecco perché uno dei decreti ultimi sulla riforma della penitenza quaresimale sembrava quasi eliminare quello che finora sembrava il contenuto specifico proprio della Quaresima. Quello che poteva sembrare il vero contenuto della Quaresima era stato eliminato non dalla Chiesa, ma dal fatto che i cristiani non ci credevano più, non facevano più nulla in questo senso. Ma forse i cristiani, non sottomettendosi più a quelle prove, davano segno d’aver capito di più la penitenza veramente cristiana, se non altro davano l’impressione di aver capito che quelle penitenze valevano poco e non era il caso nemmeno di dar loro importanza.

Qual è allora la vera penitenza a cui ci richiamano il Signore e la Chiesa nel tempo quaresimale? Questa penitenza ci richiama intanto a una coscienza di una nostra opposizione radicale con Dio. Se si impone una conversione, segno è che noi non siamo rivolti al Signore, ma gli voltiamo le spalle.

Possiamo noi dire questo? Sì, possiamo dirlo! Nel fondo del nostro spirito noi rimaniamo in una certa opposizione a Dio fintanto che non siamo dei santi. Solo il santo vive, anche nell’atto suo primo, anche nell’atto suo più interiore, questa perfetta adesione a Dio, questa perfetta trasparenza dell’essere alla luce divina. Noi nel nostro più intimo siamo opachi alla luce, nel nostro più intimo, senza esserne forse nemmeno consapevoli minimamente, noi viviamo una certa opposizione a Lui. E questa opposizione da che cosa deriva?

Mi sembra così chiaro quello che dice sant’Agostino, mi sembra così evangelico e così biblico: «Due amori fecero le due città: l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio». La vera conversione è una conversione che implica precisamente l’amore. L’amore è il rivolgersi dell’essere, è l’ordinarsi dell’essere: l’essere ama in quanto si ordina. E dunque questo vuol dire che di per sé non si può dividere l’essere dall’amore; praticamente c’è un’identificazione fra essere e amore, però il contenuto di questo amore deriva dall’ordinarsi. Ci si ordina in un modo o ci si ordina in un altro. Se tu non ami Dio, non per questo non ami: ami te stesso. Se tu ami Dio, non per questo tu non sei, anzi realizzi te stesso precisamente come Dio ti ha voluto, come suo figlio e sua creatura.

Qual è la conversione dunque a cui ci chiama il Signore, la vera penitenza? È questo terremoto interiore, questo rivolgimento dell’essere onde tutto in noi si ordina a Lui, e per ordinarsi a Lui si strappa a un precedente amore, sfugge, si sottrae a un’attrazione che s’imponeva finora al nostro spirito e ci sottraeva, almeno in parte, a Dio stesso.

Se noi non avessimo bisogno di questa conversione, noi saremmo già santi. Possiamo dire di essere santi? No: vuol dire che abbiamo bisogno di convertirci. Se la santità è il nostro ordinarci totale a Dio, vuol dire che ancora non siamo totalmente ordinati, vuol dire che abbiamo bisogno di conversione. Ma da che cosa? Probabilmente, per noi tutti, dall’amore di noi stessi, come dice sant’Agostino: «Due amori fecero le due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé».

Si impone dunque una liberazione dai nostri egoismi, si impone dunque che noi sappiamo veramente rinunciare a noi stessi. L’abnegazione di sé: ecco quello che implica la conversione del cuore.

Ritiro del 4 marzo 1968 a Viareggio