Essere la gioia di Dio (1998)
L’amore del padre, che nella parabola (cfr. Lc 15, 11-32; la parabola del figlio prodigo) si manifesta così grande e in modo quasi inconcepibile, non può non suscitare una risposta di amore in chi è amato. Il comando dell’amore di Dio da una parte, prima di tutto, ci insegna come noi dobbiamo amare Dio e come l’amore di Dio in noi debba essere il fondamento di ogni virtù, il carattere precipuo della nostra vita religiosa; ma dall’altra parte ci dice anche che non solo l’amore che noi dobbiamo a Dio è cosa mirabile e grande, ma che è ancora più mirabile e grande l’amore che Egli ci porta. Non tanto l’amore che noi abbiamo per Lui, quanto soprattutto il fatto che Egli ci ama. Colui che è l’infinito e in Sé ha una beatitudine immensa, è come se nulla possedesse fintanto che non possiede il tuo cuore. Ci ama così che noi siamo la sua gioia, che noi siamo la sua vita.
È un insegnamento che troviamo già nel Vecchio Testamento. Il profeta Isaia dice infatti che come lo sposo ama la sposa così Dio ama te e come lo sposo trova la sua gioia nella sposa così Dio trova la sua gioia in te (cfr. Is 62, 5; prima lettura della messa vespertina nella vigilia di Natale). La meditazione dell’amore che dobbiamo portare a Dio è superata dalla consapevolezza che noi siamo l’oggetto del suo amore. Si è sempre detto, ed è la verità, che Dio è il fine dell’uomo. Tutta la nostra vita tende consapevolmente o inconsapevolmente a Lui perché vogliamo la verità, perché vogliamo la pace, perché vogliamo la bellezza, perché vogliamo la vita, perché vogliamo l’amore: e Dio è la pace, la bellezza, l’amore; tutto si identifica a Lui nella sua realtà ultima.
Se questo è vero, è vero anche che noi siamo la gioia di Dio, che noi siamo la sua ricchezza, che noi siamo la sua vita. Chi ama trova nell’amato la sua gioia; così anche Dio trova in noi la sua gioia. È una cosa inconcepibile, certo, ma non vi è nulla di più inconcepibile del Credo cristiano; supera veramente ogni nostra aspettativa, ogni nostro pensiero.
D’altra parte non sarebbe Dio colui che si rivela, se Egli non dovesse superare ogni nostra concezione religiosa, ogni nostro pensiero, ogni nostro desiderio e speranza. Per questo possiamo veramente cantare nel Credo: «Propter nos et propter nostram salutem descendit de caelis». Dio ha voluto farsi uomo per noi. Tutto è per noi, noi siamo la causa finale di tutte le opere di Dio, come se in noi Egli, pienamente, trovasse l’ultima perfezione della sua vita, l’ultima e la più grande gioia del suo cuore.
È un insegnamento che sembra blasfemo: come possiamo pensare che Dio abbia bisogno dell’uomo? Che Dio non soltanto ci ami, ma faccia di noi il termine stesso di tutto il suo amore? Eppure è come se il paradiso non fosse più nulla per Lui. Egli lascia di fatto la gioia del cielo e si fa uomo: bambino nella grotta di Betlemme, fanciullo nella bottega di Giuseppe, uomo peregrinante attraverso i villaggi della Galilea e della Giudea per annunciare il regno di Dio; conduce una vita di povertà, di umiltà, di stenti. E ancora di più: vive una vita di oltraggi da parte degli uomini, di odio da parte dei sommi sacerdoti, di morte. Per noi Egli tutto sceglie, tutto vuole. Egli ci ama. Nulla è per Lui la sua sofferenza, se attraverso questa sofferenza può salvarci, perché la sua vita non è la sua gioia, perché la sua vita non è la sua ricchezza: siamo noi la sua vita. Come per noi dopo la nostra morte tutto ci apparirà inutile tranne l’amore che avremo portato al Signore, perché è quello che ci farà vivere eternamente, così per Lui è nulla il paradiso senza di noi. Così Egli ci ama.
Ritiro del 22-23 marzo 1998 a Solarino (SR)